salari e caro vita
Capirci di più sull'aumento dei profitti in tempi di inflazione. Il caso della benzina
I guadagni si adeguano alla crescita del costo della vita molto più velocemente di quanto non facciano i salari. Il prezzo dei carburanti può essere utile per capire qualcosa di più su come questo fenomeno si sviluppa.
C’è una discussione fiorente su chi paga gli effetti dell’inflazione. I salari sono sicuramente rimasti indietro nella rincorsa ai prezzi ma dall’altro lato non è vero che in generale i margini di profitto delle imprese siano aumentati. Sicuramente non in tutte le imprese e non in tutti i settori. E’ vero però che i profitti si adeguano all’inflazione molto più velocemente di quanto non facciano i salari e questo spiega la crescita della quota di profitto del pil rispetto alla quota di salari. Con il rinnovo dei contratti collettivi di lavoro questa anomalia dovrebbe essere superata, sempre che le imprese non scarichino l’aumento dei salari su un ulteriore aumento dei prezzi. Questo dipende sostanzialmente da quanto potere di mercato c’è nei vari settori dell’economia: quanta più concorrenza c’è, tanto meno si possono alzare i prezzi quando aumentano i costi.
La letteratura economica studia la concorrenza in diversi settori principalmente secondo due dimensioni: quanto sono concentrate le quote di mercato in un settore; qual è il mark up medio del settore, ovvero il ricarico che i produttori possono fare sui costi di produzione. I due indicatori (la concentrazione degli operatori e i margini di profitto) vanno spesso insieme ma non sempre: ci sono mercati in cui gli operatori sono pochi ma la concorrenza è alta e quindi i margini di profitto sono bassi. Si fanno profitti con i volumi ma con margini bassi. Il tema è complicato ma oggi può essere utile per capire qualcosa di più sull’aumento dei margini di profitto in tempi di inflazione. Due libri recenti (T. Philippon, “The great reversal” e I. Eeckhout, “The profit paradox”) sostengono che nel tempo vi è stato un aumento dei margini di profitto delle imprese in alcuni settori perché vi è stata maggiore concentrazione in pochi grandi operatori.
E’ un fenomeno più che ventennale ma oggi, con l’inflazione, quali sono i settori in cui le aziende hanno potere di mercato e quindi possono permettersi non solo di aumentare i prezzi in linea con i costi (quindi con margini costanti) ma addirittura aumentarli più dei costi (aumentando il mark up)? La letteratura segnala che i settori più concentrati sono high tech, energy ma anche la grande distribuzione (negli Stati Uniti anche la sanità privata). Facciamo un esempio molto attuale, il prezzo della benzina che è parte importante del paniere di consumo su cui si misura l’inflazione. Dimentichiamoci per un attimo il prezzo alla pompa e guardiamo a come si forma il prezzo di mercato della benzina e del gasolio. La raffinazione del greggio è una tecnologia con pochi input di base: la materia prima è il petrolio, che notoriamente ha un prezzo determinato da una Borsa mondiale (per l’Europa è il Brent). Ma il prezzo del prodotto raffinato si forma su un’altra piattaforma (Platts) che dà giornalmente il valore di una tonnellata di benzina o gasolio in uscita da un deposito di raffineria. Il prezzo Platts quindi dà automaticamente anche il margine di profitto dell’attività di raffineria se gli sottrai il prezzo del Brent e poco altro. A valle poi ci sono le accise e l’Iva che notoriamente sono molto alte in Italia e il margine (molto piccolo) per il trasporto e il venditore finale.
Per dare un’idea, al 31 luglio il prezzo del gasolio era 1,74 di cui 0,67 Platts, 0,93 accise e 0,13 margine di distribuzione. Nel corso del 2022 il prezzo del greggio è aumentato del 10 per cento ma il prezzo del gasolio raffinato Platts è aumentato del 40 per cento. La raffinazione è sempre stata un’attività con un margine di profitto basso, ma nel 2022 i margini e i profitti sono stati i più alti degli ultimi 30 anni. Al 31 luglio 2023, il prezzo del petrolio è sceso dell’1 per cento da inizio anno ma la benzina è salita del 19 per cento. Cosa è successo? Certo, il numero delle raffinerie è sceso per un tema di sostenibilità ambientale, ma alla fine la capacità di raffinazione in Italia è di 87 milioni di tonnellate l’anno e nel 2022 l’utilizzo è stato del 78 per cento (68 milioni di tonnellate), di cui solo 40 milioni sono state consumate in Italia. Non può essere solo un problema di scarsa capacità produttiva o del fatto che sia venuto meno il gasolio russo. Il punto è che il settore della raffinazione è dominato per ragioni tecnologiche da pochi grandi raffinatori e pochi trader che fanno il prezzo e in questo caso anche il profitto.
Poi c’è anche il tema del prezzo alla pompa, ma è un problema marginale. Abbiamo visto quanto poco contino nella composizione del prezzo i margine per il trasporto e il venditore finale. Certo, in autostrada, i relativamente pochi venditori pagano una concessione (e una posizione geografica) e in più possono vantare un potere di mercato di alzare il prezzo oltre l’aumento dei costi. Il problema è sempre lì, il potere di mercato, le condizioni di concorrenza, ma in questo settore il problema sta a monte, non alla pompa.