Gli effetti del decreto

La tassa sugli extraprofitti delle banche è l'ultimo capitolo di un fisco iniquo ed esoso

Carlo Stagnaro

Il governo predica di fisco amico e promette un sistema tributario più equo, ma poi razzola male. Dopo l'energia, ora tocca agli istituti di credito: così provvedimenti “straordinari” acquistano sempre più un carattere di ordinarietà

Dopo l’energia, le banche: il Consiglio dei ministri ha dato il via libera alla quinta tassa sugli extraprofitti in un anno e mezzo. Il ministro dei Trasporti, Matteo Salvini, ha annunciato un contributo del 40 per cento sugli utili che le banche hanno ottenuto nel primo semestre di quest’anno grazie agli aumenti dei tassi decisi dalla Banca centrale europea. Il valore in Borsa degli istituti di credito è immediatamente crollato, sia per il prevedibile effetto che il nuovo tributo avrà sui loro bilanci, sia per l’incertezza sulle sue effettive caratteristiche: in una sola seduta le banche hanno bruciato circa 9,5 miliardi di capitalizzazione. Ma, più ancora degli impatti immediati, Giorgia Meloni farebbe bene a interrogarsi sulle premesse implicite e sulle conseguenze di lungo termine di una tassa che sembra fatta apposta per danneggiare il paese. L’idea di fondo è che le banche abbiano beneficiato, ingiustamente e senza merito, della politica di Francoforte. Ammesso che questo sia vero, il rialzo arriva dopo un lunghissimo periodo in cui i tassi sono stati, letteralmente, sotto zero. Inoltre non è ovvio che implicazioni abbia per i diversi istituti: se incrementa il costo dei finanziamenti, può anche determinare un indebolimento patrimoniale delle banche, a causa della riduzione del valore delle obbligazioni che hanno in portafoglio. A ogni modo, ciò che rileva è il presupposto stesso della misura. L’idea di fondo è che le banche abbiano goduto di utili extra rispetto a quelli che sarebbero stati giustificati. Ciò equivale a dire che praticano prezzi superiori a quelli “di mercato” per i prodotti che vendono. Questa circostanza può verificarsi solo in presenza di condotte illecite, quali abusi di posizione dominante o cartelli.  


Ma non sembra esserci prova di tali comportamenti e, se ci fosse, lo strumento per ripristinare condizioni concorrenziali non dovrebbe essere la fiscalità ma l’intervento dell’Antitrust. Più importante, per dire che taluni profitti sono in eccesso, bisogna avere una conoscenza precisa del livello “normale” dei profitti, e quindi dei prezzi. Ma se il governo conosce il prezzo “giusto” delle cose, che senso ha impegnare tempo e risorse in un meccanismo di mercato per scoprire il valore dei prodotti, quando potremmo cavarcela con una commissione di esperti ministeriali?

Sfortunatamente, quella che Friedrich von Hayek chiamava la “presunzione fatale” dei pianificatori sembra molto diffusa di questi tempi. Anche un’altra scelta compiuta lunedì – i vincoli agli algoritmi e i tetti ai prezzi dei biglietti aerei – muove dalla medesima premessa. E anch’essa può arrivare allo stesso risultato, cioè a depauperare le imprese che offrono servizi in condizioni di scarsità e porre le basi perché esse, anziché investire di più ampliando l’offerta, tirino i remi in barca aggravando la situazione.

D’altro canto, non siamo certo di fronte a un fatto nuovo. Già oggi alle banche si applicano regole fiscali ad hoc, finalizzate ad ampliare la base imponibile. Inoltre, il nuovo balzello fa seguito all’aliquota Ires straordinaria del 50 per cento sui profitti delle compagnie energetiche inserita nella legge di Bilancio 2023, al tetto di 180 euro per MWh per gli impianti rinnovabili e ai due tributi voluti da Mario Draghi: il prelievo del 25 per cento sugli incrementi netti dei saldi Iva per le imprese nel settore dell’energia e il tetto ai ricavi di mercato di alcuni impianti a fonti rinnovabili. Tutte queste gabelle sono state impugnate e c’è una buona probabilità che siano considerate incostituzionali, come del resto accadde alla Robin Tax del 2008.

Ciò che preoccupa, dunque, non è di per sé la dubbia legittimità della tassa che, se adottata in difetto dei necessari presupposti, sarà infine cassata. E’ piuttosto la sensazione spiacevole che i provvedimenti “straordinari” acquistino sempre di più un carattere di ordinarietà. Certo, di volta in volta cambia il bersaglio (ieri l’energia, oggi le banche) o le ragioni dichiarate (la crisi del gas, l’inflazione). Ma il film è sempre lo stesso: anziché contare su regole certe e note ex ante, le imprese devono mettere in conto il rischio di vincere il biglietto della lotteria per il capro espiatorio dell’anno. In tal caso, avranno il dubbio privilegio di essere sacrificate per finanziare spese pubbliche che non potremmo altrimenti permetterci. Il governo predica di fisco amico e promette, delega alla mano, un sistema tributario più equo e meno invasivo, ma poi razzola male e contribuisce a costruire un fisco più esoso, più imprevedibile e più insostenibile. 

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