La natura, le stagioni, i flagelli
L'incognita del cielo. Come il clima cambia la nostra vita
Dall’urbanistica all’organizzazione del lavoro, il mondo si attrezza per convivere con le temperature che crescono. La storia insegna: l’innovazione può salvarci. Ma ora la politica deve decidere
Tre cose hanno esercitato un’influenza costante sulle menti degli uomini: il clima, il governo e la religione. Questi fattori chiave dei quali ha scritto Voltaire si sono intrecciati l’un l’altro fin dagli esordi delle civiltà; tutte le civiltà, dall’occidente all’oriente. “Il mandato del Cielo” ricevuto dall’imperatore, versione cinese del carisma greco-cristiano, aveva un contenuto etico-politico che si manifestava con le condizioni climatiche: i buoni reggenti erano benedetti da un sole non troppo rovente e da piogge abbondanti, ma prevedibili e controllabili. Con bufere e siccità, invece, gli dèi esprimevano la loro collera contro chi non aveva seguito la retta via. Lo ricorda nel suo ultimo libro, “La terra trasformata”, Peter Frankopan, professore di storia globale all’Università di Oxford, famoso al di là della stretta cerchia accademica per un altro suo volumone, “Le vie della seta”, che racconta come Europa e Asia si siano influenzate molto più di quel che normalmente si crede. Lo storico si chiede se persino la leggenda biblica di Sodoma e Gomorra non avesse un fondamento climatico. Certo, Dio punì con la pioggia sulfurea i peccati degli uomini. Tuttavia, attorno al 1650 avanti Cristo, nella parte meridionale della valle del Giordano, si alzò davvero da terra un fumo denso e rovente come da fornace, che distrusse la città di Tall el-Hammam. Le sue mura massicce alte quattro metri vennero travolte così come buona parte del palazzo reale. Secondo le ricostruzioni considerate più attendibili, la temperatura avrebbe raggiunto i duemila gradi centigradi e l’intera area, ampia 25 chilometri, venne abbandonata per secoli e secoli perché il terreno era diventato arido e invivibile, coperto da uno strato di sale. Non siamo lontani dal Mar Morto e se vogliamo restare al libro della Genesi, non possiamo ignorare la moglie di Lot trasformata in statua di sale perché volle sapere e si voltò per vedere quel che stava accadendo. Storie e leggende si rincorrono anche nelle vaste steppe dell’Asia dove nel settimo secolo dopo Cristo la confederazione delle tribù turche avrebbe potuto costruire un impero fino ai confini dell’Europa, ben prima degli ottomani e dei mongoli, se un’ondata di freddo polare non avesse congelato le loro greggi.
Di uomini e climi
Ai tre pilastri di Voltaire bisogna aggiungere la tecnologia. Diceva Benjamin Franklin che fallire nel prepararsi è prepararsi a fallire; nulla è più vero oggi che l’èra del Grande Caldo rende difficile persino vivere. Non importa se è soprattutto colpa dell’uomo in questa epoca cominciata con la rivoluzione industriale o se si tratta di cicli cosiddetti naturali (distinzione capziosa, perché sempre uomo e natura hanno formato una dialettica conflittuale). E non importa nemmeno se, come e quando l’umanità riuscirà a invertire in modo determinante il corso negativo degli eventi. Oggi come oggi l’obiettivo numero uno è prepararsi per non fallire. E’ successo nell’antichità e in molti casi sta accadendo di nuovo. Secondo Tucidide lo sviluppo e l’espansione della civiltà greca si deve anche alla capacità di proteggere le terre fertili che pure erano scarse se si esclude l’arida pianura del Peloponneso centrale. Al contrario, la storia inanella una lunga serie di fallimenti, come la decadenza della città di Akkad, un esempio antico, ma sempre valido del rischio di vivere al di sopra dei propri mezzi, sostiene Frankopan. I romani vinsero sugli altri popoli grazie alla loro capacità di gestire al meglio le risorse, si pensi soltanto agli acquedotti. Furono anche fortunati se è vero che poterono usufruire di alcuni secoli di clima favorevole, caldo (Seneca se ne lamentava in continuazione), ma non rovente. Gli storici parlano di un “ottimo climatico” che accompagnò l’ascesa di Roma e finì poco dopo la caduta dell’impero, tra quinto e sesto secolo. Non fu così molto tempo prima, durante “l’èra oscura” detta Megalaiana. Secondo la Commissione internazionale di stratigrafia, i cambiamenti climatici attorno al 2200 avanti Cristo provocarono una mega siccità che causò il collasso di intere civiltà, non solo in Mesopotamia, ma in Egitto e nelle aree irrorate dai grandi fiumi come il Nilo, lo Yangtze in Cina e la valle dell’Indo. E’ noto come il cosiddetto “risveglio dell’anno Mille” coincida con un ciclo di clima temperato, fino alla “piccola glaciazione” che va dalla metà del XIV secolo a Napoleone la cui smisurata ambizione venne freddata dal grande inverno russo.
Gli ecologisti radicali parlano dell’Antropocene, l’èra in cui l’uomo è dominante, come di una catastrofe assoluta ben peggiore di quella che s’abbatté quattromila anni fa. Eppure persino allora la crisi ambientale mise in moto una reazione basata su innovazioni tecniche e produttive, così come su nuovi modi di vita e istituzioni, per esempio l’accentramento del potere negli imperi che dominarono le steppe, le grandi pianure, le aree desertiche o dal lato opposto la rete di città stato e di colonie delle civiltà mediterranee là dove il dio del mare regolava i venti e gli uomini imparavano a domarli, trasformando in carezze le loro violente sferzate. Il vento è stata la fonte energetica di quei secoli in cui sorse la civiltà occidentale. E qui la storia dell’interminabile lotta tra l’uomo e il clima ci porta negli Stati Uniti di un secolo fa e all’invenzione che ha trasformato prima gli stati del sud – umidi, afosi, subtropicali a est, influenzati dal Golfo del Messico, la culla di tutti gli uragani – poi quelli aridi e desertici del Grande West.
L’aria condizionata
Sunbelt, la cintura del sole: viene chiamata così l’intera fascia meridionale degli States, dalla Carolina alla Florida, dal Texas alla California. Insomma siamo oltre un terzo dell’immenso territorio tra l’Atlantico e il Pacifico. Quella icastica definizione è abbastanza recente, il primo a usarla è stato nel 1969 il politologo Kevin Phillips nel suo libro intitolato “L’emergere della maggioranza repubblicana”. Già allora individuava un cambiamento sociale e geo-economico dalle enormi conseguenze politiche perché l’asse del paese si stava spostando dal Midwest e dal nordest verso il sud e il West. Negli anni 70 il fenomeno è diventato più evidente. Oggi l’ufficio di statistica calcola che circa il 90 per cento dell’aumento di popolazione avvenuto a partire dall’inizio di questo secolo è proprio nella Sunbelt. Questa enorme migrazione è cominciata negli anni 60 grazie all’introduzione dell’aria condizionata, “il più grande contributo alla civiltà nella seconda metà del ’900”, secondo lo studioso britannico S. F. Markham. Forse esagera, certo è invece che sia diventata parte integrante del modo di vita americano, secondo il saggista Salvatore Basile, autore di un libro intitolato “Cool: How Air Conditioning Changed Everything”. Jack Pitney, professore di politica al Claremont McKenna College, si chiede: “Cosa sarebbe Orlando a metà agosto senza aria condizionata? Disney World assomiglierebbe all’Isola del Diavolo”.Si dice che l’aria condizionata risale a Giambattista della Porta che nel 1558 trovò un metodo per raffreddare l’aria usando nitrato di potassio. Da allora in poi
sono fioriti i tentativi sperimentali in Inghilterra e soprattutto negli Stati Uniti. Il primo apparecchio fu brevettato nel 1886 da Lewis Latimer, disegnatore e progettista di Thomas Edison. Ma il vero condizionatore si deve all’americano Willis Carrier che nel 1902 utilizzò l’espansione di gas refrigeranti, convogliati in un circuito idraulico nel quale essi passavano più volte dallo stato liquido a quello aeriforme. Brevettato nel 1906, anno in cui iniziò a diffondersi l’espressione “air conditioning”, il sistema si diffuse nelle fabbriche, negli uffici, nelle sale cinematografiche. Erano macchine grandi e ingombranti che usavano gas tossici, dall’ammoniaca al clorometano. Nel 1931 furono sostituiti da nuovi composti chimici noti col nome commerciale di “freon”, innocui per l’uomo, ma non per l’ambiente, in particolare per l’ozono atmosferico, tanto che oggi sono in gran parte vietati. Nello stesso anno gli ingegneri H. H. Schultz e J. Q. Sherman sperimentano un apparecchio da collocare sui davanzali delle finestre. E’ la svolta. Dalle case alle auto (la prima a crederci fu la Packard), e l’American way of life segna un altro punto a suo favore.Sulle ricadute politiche ha insistito anche Nelson Polsby, docente all’Università di Berkeley: l’aria condizionata ha spostato nel sud ovest i pensionati repubblicani che hanno asfaltato la strada a Ronald Reagan e ha
diffuso come non mai le nuove sette evangeliche. Magari sono semplificazioni, senza dubbio oggi l’aria condizionata “a palla” non è la risposta al Grande Caldo, non solo per i suoi effetti inquinanti, ma perché non ci sono le infrastrutture elettriche sufficienti e non ci saranno mai se sette miliardi di persone volessero accendere le loro macchine del freddo. Ci vuole altro, una combinazione efficace di tecnologie, organizzazione sociale, struttura economica e istituzioni pubbliche. Daron Acemoglu, l’economista armeno nato in Turchia, professore al Massachusetts Institute of Technology, invita a rivedere alcuni punti fermi dei modelli economici, dal modo di calcolare i costi dell’effetto serra alla funzione di utilità fino alla teoria dei beni pubblici. La domanda cruciale è quanti consumi dobbiamo (e possiamo) sacrificare oggi per un domani migliore. Secondo un calcolo tradizionale conviene rinunciare a un euro solo se siamo convinti di ottenerne 200 fra un secolo. Un azzardo, si affronta un rischio presente prendendo un rischio futuro. Ma le cose cambiano se cambiamo punto di vista e, scendendo dalle astrazioni teoretiche alla realtà, consideriamo come il clima sta già rimodellando la nostra vita.
La rivincita della siesta
Ha colpito gli inglesi che il Partenone sia stato chiuso nelle ore più calde del giorno per resistere al martellare di Cerbero sui marmi ateniesi. Una eccezione, ma forse è destinata a diventare la nuova regola. Non solo il turismo, le alte temperature stanno cambiando il lavoro e l’intera organizzazione industriale: dalle costruzioni alla manifattura, dall’agricoltura ai trasporti, dalle assicurazioni alle banche, dalle reti elettriche alle telecomunicazioni. Secondo uno studio pubblicato dal Dartmouth College (il cui motto curiosamente è “la voce che grida nel deserto”) le ondate di calore sono costate all’economia globale 16 mila miliardi di dollari dagli anni 90 in poi. Kathy Baughman McLeod, direttrice dell’Adrienne Arsht-Rockefeller Foundation Resilience Center all’Atlantic Council, sostiene che il Grande Caldo stia soffocando l’economia perché rende più difficile lavorare. Laura Kent dell’Institution of Mechanical Engineers sottolinea che l’industria deve adattarsi alla calura estrema. L’Organizzazione internazionale del lavoro, l’agenzia dell’Onu, prevede che entro il 2030 verrà perso almeno il 2 per cento del totale delle ore lavorative. Tuttavia solo pochi paesi se ne sono resi conto e hanno cominciato a riorganizzare l’orario e l’ambiente di lavoro.
L’industria delle costruzioni è la prima ad aver bisogno di una radicale ristrutturazione. Ma l’impatto non è solo su chi lavora all’aperto. Stabilimenti e magazzini sono concepiti e costruiti per temperature ben diverse anche in paesi caldi come la Spagna o l’Italia. L’agricoltura dovrà cambiare in modo davvero consistente. Più colpiti saranno i raccolti di cereali: secondo una ricerca americana, la produzione di granturco perderà 1,7 miliardi di dollari entro il 2030. Ma anziché piangersi addosso, meglio andare a lezione in Israele: altro che made in Italy, là sanno davvero come far fiorire il deserto. Basta guardare a cosa hanno fatto persino a Pachino trasformando gli smilzi e piatti pomodorini autarchici nei succosi ciliegini ormai esportati in mezzo mondo. La Coldiretti dovrebbe innalzare monumenti con la stella di David invece di lagnarsi per ogni cosa e far pagare Pantalone. Senza contare l’uso massiccio dell’acqua marina. Durante le meste recite dei mesi scorsi sulla siccità, i pochi che hanno parlato di aumentare i dissalatori sono stati azzittiti con obiezioni capziose e ideologiche. Allora come si fa ad applicare il motto di Franklin? Se siamo destinati a vivere almeno per un periodo di tempo abbastanza lungo in un mondo più caldo, ebbene dobbiamo tirarne le conseguenze in modo razionale.
L’intervento più urgente riguarda l’organizzazione del lavoro a cominciare dall’orario. Una soluzione ovvia è allungare la pausa pranzo, prevedere una lunga siesta nelle ore calde, lavorare di più la mattina e la sera. Alcune aziende lo stanno sperimentando. E’ più facile negli uffici pubblici e in molti servizi, molto più arduo in fabbrica, impossibile là dove il ciclo è continuo. In tal caso occorre utilizzare le macchine, affidare sempre più ai robot i compiti oggi eseguiti dagli umani e sviluppare l’intelligenza artificiale. L’impatto sui costi non va certo sottovalutato, tanto meno quello sull’occupazione. Di fronte al dilemma tra lavoro e salute, è la macchina a vincere e il Grande Caldo è il suo miglior amico. Ma le innovazioni maggiori riguardano i materiali. Oggi strade e palazzi sono fatti per lo più con sostanze che trattengono l’energia proveniente dai raggi solari, si pensi al cemento o all’asfalto. Occorre trovare rimedi se non vere e proprie alternative. Alcune imprese di costruzioni cominciano a usare l’intelligenza artificiale non solo per azzeccare le previsioni del tempo, ma per programmare l’attività in funzione del riscaldamento climatico, per esempio rinunciando a ordinare troppo acciaio se si prevede un’ondata di calura. Il tessile e l’abbigliamento stanno già sviluppando le loro contromisure: dal lino al cotone fino alle fibre tecniche acchiappa-sudore è tutto un adattarsi, niente più abiti quattro stagioni che vanno di moda nel mondo anglo-americano, ma lane super leggere da marzo a novembre e poi flanella, il vecchio tweed tornato di moda, impermeabili a volontà. Anche qui, la riconversione arriva come risposta alla crisi. Si perdono vecchi posti di lavoro e se ne creano di nuovi.
Ripensare le città
E’ il compito più grande, davvero enorme. Dalle infrastrutture ai servizi essenziali, dalla gestione dei rifiuti ai trasporti, non c’è ganglio della vita urbana che non venga coinvolto. Una vera e propria riconversione sotto l’influenza del clima. I paesi del nord Europa sono i meno preparati con le loro case costruite per contrastare il freddo, città come Vienna dove l’aria condizionata è meno usata boccheggiano, ma i paesi caldi a loro volta diventano ancor più caldi. E’ tutto un fiorire di idee spesso fantasiose: dipingere di bianco i palazzi, e le strade come stanno facendo a Los Angeles, costruire pensiline per dare ombra, ispirarsi al passato (Roma con i suoi portici e i suoi cunicoli o i trulli che poi tanto freschi non sono). Sono al lavoro scienziati di ogni tipo, urbanisti, amministratori, si creano appositi uffici come a Phoenix in Arizona. Poi ci sono gli alberi o i boschi verticali. La fantasia al potere, ma la domanda fondamentale è se può essere considerato ancora utile ed efficiente ammassare persone e cose in pochi centri direzionali, innalzando torri dispendiose, esposte a luce e sole, difficili da raffreddare. Il mutamento del clima non deve forse favorire il decentramento? Nella gestione dei servizi ciò è evidente e qui dovremmo prendere esempio dall’antica Roma con le sue caserme dei vigili, a un tempo pompieri e poliziotti, in ogni quartiere. Non hanno evitato il grande incendio neroniano, ma su quello gli storici sono ancor oggi divisi.
Le città dovranno prepararsi ad accogliere le migrazioni climatiche destinate a sostituirsi o meglio a integrarsi alle migrazioni per motivi economici o politici. E’ un fenomeno che riguarda non solo e non tanto le terre ricche del pianeta, ma intere fasce interne agli stessi continenti: forse in America si svuoterà la Sunbelt e rifioriranno le grandi pianure del Nord o le Montagne Rocciose, in Europa la grande e poco popolosa Svezia diventerà meta di migranti spagnoli e italiani come dopo la Seconda guerra mondiale. Ma il fenomeno più massiccio riguarda già oggi intere regioni dell’Africa e dell’Asia. Chi ha i capelli bianchi ricorda l’alluvione del Polesine nel 1951, l’anno della mala acqua, con piogge che per mesi e mesi spazzarono l’Italia anche nel sud e gonfiarono il Po. A novembre piovve per due intere settimane, il fiume tanto caro a Umberto Bossi il 14 del mese inondò parte dell’Emilia e soprattutto il basso veneto. Un evento catastrofico che spinse gran parte dei 180 mila senza tetto a insediarsi a Milano, a Torino o a fuggire all’estero. Arrivarono aiuti da mezzo mondo, dagli Stati Uniti come dall’Unione sovietica. Previsione e prevenzione fecero fallimento, la ricostruzione invece fu un successo. L’anno successivo vennero recuperati i raccolti, i consorzi di bonifica, ben 46 spesso in lite tra loro, vennero riuniti, democristiani al governo e social-comunisti guidati da Alfredo De Polzer in provincia collaborarono tra loro.
I nuovi mestieri
Climatologi, fisici atmosferici, studiosi delle nubi, esperti in geofluidodinamica: sono i mestieri del futuro ai quali se ne aggiunge un altro in questo mondo dominato dallo star system. Viene chiamato super previsore ed è sempre più ricercato. Ne ha scritto l’Economist citando una ricerca pubblicata il 10 luglio a cura di Ezra Karger, economista della Federal Reserve di Chicago, e Philip Tetlock, politologo dell’Università della Pennsylvania. Da una parte gli esperti nei campi più diversi, dall’energia nucleare alla guerra biologica, dall’altra un gruppo di super-previsori noti per aver azzeccato le loro divinazioni in politica come nelle guerre. Insomma una bella adunata di guru e gufi di ogni tipo. In tutto, 169 persone divise grosso modo a metà. Il loro compito era stimare la probabilità di grandi catastrofi in grado di portare all’estinzione del genere umano. Ebbene, gli esperti in un singolo campo sono risultati più pessimisti di quelli che potremmo chiamare, non se ne abbiano a male, i tuttologi dell’apocalisse. Come mai? Una risposta è perché i primi hanno guardato ciascuno il proprio albero perdendo di vista la foresta, mentre gli altri hanno ragionato sulle capacità di risposta dell’umanità ai pericoli, in particolare quelli estremi. Sia chiaro, nessuno di loro è in grado di elaborare quel che non sappiamo, non si tratta di conoscere il destino dai fondi di caffè, ma di proiettare secondo un paradigma scelto le informazioni esistenti. Possiamo dire che si tratta di un gioco intellettuale, tuttavia è utile ad affrontare alla luce delle conoscenze acquisite i ragionevoli rischi del presente e prepararsi per quelli di un vicino futuro. La figura cara alla televisione di un tempo, l’ufficiale dell’aeronautica che ci mostra i moti dei venti e delle piogge, così come le più fiammanti modelle che promettono sole, mare e divertimento, saranno rimpiazzate dai nuovi interpreti dei cielo.
Gli scienziati lavorano sui dati e oggi sono in grado di misurare, entro i limiti di quel che si conosce, l’evoluzione geologica e climatica in un arco molto lungo. Gli storici lavorano sui documenti, sui racconti, sulle testimonianze. Gli economisti si basano su modelli matematici verificandone di volta in volta il loro potere interpretativo. Tutti insieme sono in grado di presentare un affresco abbastanza attendibile di quel che accade. Poi ci sono quelli che proiettano il passato sul presente e il presente sul futuro. Nessuno di loro può calcolare il fattore politico. Le origini di prosperità e povertà risiedono nelle istituzioni che le nazioni si danno, sostiene Acemoglu nel suo bestseller “Perché le nazioni falliscono”. Ma chi potrà dire oggi come si comporteranno i decisori occulti e quelli palesi? Chi riuscirà mai a predire se faranno le scelte migliori nelle condizioni date? Se lo chiede l’Economist e nemmeno i sapientoni di St James’s Street trovano la risposta.