la lettera
La tassa sugli extraprofitti smaschera il volto populista del governo Meloni
È vero che la premier ha mostrato responsabilità, ma lo ha fatto quando non aveva scelta. Lo dimostra la vicenda delle banche, per la quale ha festeggiato unito il fronte che va dalla Lega alla Cgil. Per i liberal-democratici riformisti è una possibilità da cogliere
Il Direttore de Il Foglio ci ricorda spesso come la Meloni-premier sia spesso molto diversa dalla Meloni-leader dell’opposizione. E ha ragione: in questi primi dieci mesi di governo, sull’Ucraina, sul profilo di finanza pubblica, sul fisco, sulla politica energetica, su Ita, persino sull’evasione fiscale ha fatto esattamente l’opposto di quello che diceva nei dieci anni di opposizione, passando dal 3% al 30%.
È probabilmente però arrivato il momento di chiederci se queste scelte siano state frutto di una consapevole evoluzione politica o, piuttosto, di un sentiero obbligato accettato a mezza bocca. Il sottoscritto propende decisamente per la seconda ipotesi.
La retromarcia sull’Ucraina e sulla collocazione internazionale era obbligata, altrimenti la Meloni non si sarebbe neanche avvicinata all’ingresso laterale di Palazzo Chigi. Quella sulle scelte di finanza pubblica pure, altrimenti coloro che ogni anno ci prestano 400 miliardi di euro per mandare avanti la baracca avrebbero richiesto una remunerazione maggiore per continuare a prestarci i soldi, mandandoci piuttosto velocemente a gambe all’aria. E le scelte su energia, fisco e Ita sembrano dettate da una ragione di convenienza spicciola: “A Matte’ - deve aver detto Giorgia al Capitan Salvini - qua ci stanno le cose già preparate da Draghi, ma chi ce lo fa fare di metterci a farle noi daccapo? Anche perché, diciamocelo, ci sarebbe pure da studiare”.
La prova che queste scelte siano state una violenza auto-imposta alla propria natura, sta nel fatto che in questi mesi la vena autenticamente populista della coalizione di governo – o quantomeno della sua carrozza motrice salvinian-meloniana - sia venuta fuori più volte: sui rave party, sul Mes, sul Fondo Sovrano (e in genere su tutte gli argomenti sui cui abbia messo bocca o mano il ministro Urso), sulle critiche alla Bce, sulle scelte pubblicitarie, sul cuneo fiscale il 1 maggio.
E, l’altro ieri, sulla scelta di tassare i cosiddetti extraprofitti delle banche. Una scelta istantaneamente festeggiata con caroselli in piazza da Fratoianni, dai sindacati, dal M5S e a quanto pare persino dal Pd schleiniano.
Nel gennaio 2019 scrissi su Il Foglio una lunga riflessione in cui argomentai che le categorie politiche che fin dalla Rivoluzione francese avevano caratterizzato lo spettro politico (“destra” e “sinistra”) non avevano retto allo shock della globalizzazione e delle sue prime crisi. Lasciando spazio non certo ad un arido panorama di “pensiero unico”, ma semplicemente a nuove categorie politiche, divise da linee discriminanti ancora più profonde delle precedenti.
A distanza di qualche anno, sono ancora più convinto di questa tesi. E la vicenda degli extraprofitti non fa altro che confermarla.
In Italia, infatti, “destra” e “sinistra” non significano praticamente più nulla. Abbiamo una “sinistra” che difende lo status-quo di rendita, e una “destra” che rifiuta il mercato, la concorrenza e spinge per pre-pensionamenti e intervento dello Stato in economia.
Le divisioni sono altre. Abbiamo un fronte populista che unisce Lega, la Meloni nella sua versione non draghiana, la Cgil, il M5S, la sinistra estrema e la corrente schleiniana del Pd. Sono coloro che mugugnano di fronte all’atlantisimo e all’europeismo senza se e senza ma, coloro che preferiscono la redistribuzione alla crescita, che pensano che non ci sia un problema che non possa essere risolto dall’intervento statale e da un po’ spesa pubblica in più. Sono venuti allo scoperto, diventando chiaramente identificabili, proprio in occasione della vicenda degli extraprofitti. Ma sono molto più d’accordo tra loro di quanto sembri: non a caso, per recuperare un po’ di sana conflittualità, sono costretti a ricorrere a eventi di 40 anni fa o oltre.
Al fronte populista si contrappone quello di chi crede nella società aperta, europeista, atlantista, pro-mercato, pro-crescita e dove lo stato è più spesso il problema di quanto sia la soluzione. Il fronte dei liberal-democratici riformisti, che non si esaurisce nella acciaccata galassia centrista ma comprende a pieno titolo i riformisti del Pd e i coloro che in Forza Italia non si sono rassegnati a fare i camerieri dei populisti.
Probabilmente il primo fronte, quello populista, non si raccoglierà mai in un’offerta politica omogena: vedere Fratoianni e Meloni in uno stesso partito è oggettivamente fantascienza.
Un po’ meno fantascienza potrebbe - e dovrebbe – essere, invece, vedere il fronte liberal-riformista iniziare un cammino di amalgama ben riuscito.
Ma di questo parleremo dopo le ferie. Buone vacanze a tutti.
tra debito e crescita