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L'intervento

Per una nuova economia sociale di mercato

Renato Brunetta

Inflazione, concorrenza e conflitti redistributivi. I giganti che controllano le catene del valore globale non vedono competitori all’orizzonte. I lavoratori-consumatori assistono a una perdita massiva di potere d’acquisto. Che cosa può fare un governo

Tutti contro tutti. Governi contro governi che alimentano guerre di trincea senza fine, modello secolo scorso; colpi di stato in atto; colpi di stato annunciati; geopolitica in movimento continuo e perverso; alleanze sovranazionali di interessi che si fanno e si disfano dall’oggi al domani; banche centrali incerte rispetto al nuovo contesto post-pandemico; grandi regolatori sovranazionali silenti, impotenti, poco utili. Insomma, grande è la confusione sotto il cielo, ma la situazione non è affatto eccellente, se non per i grandi titani societari che controllano le catene del valore globale. Titani che vedono aumentare, giorno dopo giorno, il loro potere, i loro profitti, la loro dominanza di mercato, tecnologica, politica, monetaria. Senza nemici, concorrenti, competitori all’orizzonte. In una pura logica di antagonismo al libero mercato, quello basato sulla concorrenza. Senza dover render conto a nessuno, arroganti e minacciosi e che lasciano il cerino in mano del conflitto distributivo, prodotto dai loro comportamenti egemonici, agli stati. Fino a quando? Andiamo con ordine a ricostruire i fatti. 

La grande inflazione post Covid che ha colpito l’economia internazionale è nata in un contesto di mercato che, nei vari stadi delle catene del valore globali (estrazione di materie prime, logistica e trasporti, trasformazione dei beni, distribuzione, produzione di servizi), è diventato nel tempo sempre meno concorrenziale. Per effetto di questo aumentato potere di mercato, alcune imprese che si sono trovate in posizione strategica nel processo produttivo hanno potuto scaricare gli aumentati costi degli input (a loro volta accentuatisi con la guerra in Ucraina) sui consumatori finali, riuscendo spesso ad accrescere i loro profitti a detrimento del potere d’acquisto dei consumatori, penalizzati anche dalla stagnazione dei loro salari dovuta alle rigidità dei mercati del lavoro. 

In effetti, guardando i dati, secondo uno studio recente del Fondo Monetario Internazionale (Europe’s Inflation Outlook Depends on How Corporate Profits Absorb Wage Gains) circa la metà dell’aumento dei prezzi osservato in Europa negli ultimi due anni può essere attribuito a un aumento dei profitti societari; i salari sono anch’essi aumentati, contribuendo a loro volta all’aumento dei prezzi, ma non allo stesso ritmo dell’inflazione. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: una perdita massiva di potere d’acquisto dei lavoratori, che in economia sono poi anche consumatori. Uno squilibrio del genere non può durare ancora a lungo. In assenza di un aumento dei salari, infatti, la perdita di potere d’acquisto si trasformerebbe presto in un fenomeno di lungo periodo. La conseguenza sarebbe quella di un impoverimento generale dei lavoratori, di un calo dei consumi e, infine, dell’entrata dell’economia in recessione. Questa recessione genererebbe una ulteriore perdita di potere d’acquisto, andando a intaccare il consenso sociale.

L’alternativa a questo quadro fosco è soltanto una, già ricordata da Fabio Panetta, governatore in pectore della Banca d’Italia, in un recente intervento: permettere ai salari, e più in generale al potere d’acquisto, di aumentare, anche facendo in modo che le imprese siano disposte ad assorbire l’aumento salariale con i loro profitti già accumulati, senza aumentare ulteriormente i prezzi, evitando così una pericolosa spirale prezzi-salari come quella osservata negli anni Settanta che ha portato l’inflazione fuori controllo. 

Tornando ai dati, quelli relativi alle dinamiche salariali all’interno dell’Eurozona non sono del tutto incoraggianti, soprattutto relativamente ad alcuni paesi, tra i quali, purtroppo, c’è anche l’Italia. Un recente studio di Goldman Sachs basato sull’osservazione di un indice tracker dei salari relativi a posti di lavoro offerti sulla piattaforma informatica della società per l’impiego Indeed dimostra, infatti, come l’aumento dei salari, dopo aver superato il picco di crescita nel primo trimestre del 2023 (+4,8 per cento su base annuale) stia gradualmente scemando. Per l’Italia l’ultimo dato disponibile mostra una crescita di salari praticamente nulla nel secondo trimestre dell’anno. I dati negativi sui salari italiani sono stati confermati anche dall’Ocse, che ha recentemente messo in evidenza come il calo dei salari reali nel nostro paese sia stato il più significativo tra tutte le economie più sviluppate alla fine del 2022, con un tasso del -7,0 per cento rispetto al periodo precedente la pandemia. La discesa è continuata nel primo trimestre del 2023, con una diminuzione su base annua del -7,5 per cento. Questo significa che l’effetto “catching-up” dei salari sull’inflazione è per noi ancora lontano, e gli altri paesi europei non sono messi molto meglio. C’è poi da considerare che, nel caso in cui il tasso di crescita dei salari dell’Italia dovesse continuare a essere inferiore a quello degli altri paesi dell’Eurozona, il divario salariale tra il nostro e gli altri paesi potrebbe presto toccare valori preoccupanti, con la conseguenza che si esacerberebbe ancora di più l’incentivo per i giovani laureati a lasciare il Paese, in cerca di occupazioni meglio retribuite.

Se i salari faticano ad aumentare, è però evidente che le imprese non fanno altro che il loro mestiere, quello di massimizzare il loro profitto e guadagnare quote di mercato sempre più grandi, e dunque non è per niente ovvio raggiungere l’equilibrio redistributivo in precedenza menzionato. Da qui la inevitabile tentazione di sciogliere il nodo gordiano con un colpo di spada, attraverso interventi governativi ad hoc di tipo redistributivo. Interventi questi che, tuttavia, anche quando sono ispirati dal condivisibile obiettivo di voler ripristinare un qualche equilibrio, evitando un eccessivo potere di mercato delle imprese a scapito dei cittadini-consumatori, rischiano di creare ulteriori inefficienze, peggiorando in ultima analisi il benessere complessivo della società, senza necessariamente risolvere alcun problema a monte dello squilibrio che si era generato. Si possono leggere in questo senso i recenti dibattiti sulla tassazione degli extraprofitti bancari, sulla regolamentazione delle tariffe aeree, o, di qualche mese fa, sulla definizione dei prezzi dell’energia. 

Tutte queste vicende hanno in realtà un denominatore comune, legato all’evoluzione economica e tecnologica: le principali imprese protagoniste dei settori menzionati (bancario e assicurativo, trasporti, petrolio e gas, materiali rari ma anche shipping, grande distribuzione, logistica, IT, telecomunicazioni) hanno raggiunto negli ultimi anni dimensioni tali da garantire loro un elevatissimo potere di mercato. Alcune di esse hanno addirittura un rating da tripla A, superiore, tanto per fare un paragone, al rating sovrano di una nazione come gli Stati Uniti. Una ricchezza che permette a società di dotarsi di sistemi di funding del tutto propri e inimmaginabili per le normali società, che non passano per il tradizionale sistema bancario, ma direttamente tramite il mercato azionario. Tanto per dare un valore alla scala dimensionale sulla quale queste società operano, la società di ricerca ADA Economics ha calcolato che le prime 50 società quotate più grandi per fatturato domiciliate in Europa occidentale, a luglio 2023, avevano una capitalizzazione pari 5.139 miliardi di euro, una cifra pari a circa una volta e mezza il pil della Germania. Ebbene, questi colossi sono stati in grado di mettere efficacemente a frutto il loro potere di mercato attraverso una sofisticata capacità di fissazione del prezzo, anche grazie all’utilizzo di modelli dinamici di analisi dei consumatori che sfruttano i big data per segmentare la domanda. Nel settore aereo come nel settore bancario. Non ci si può evidentemente attendere che queste imprese si impegnino spontaneamente a remunerare maggiormente il fattore lavoro e ottemperare ai loro obblighi fiscali su scala nazionale, garantendo così una efficiente ed equa ripartizione della ricchezza prodotta tra le varie componenti della produzione, con minori margini di profitto, maggiori vantaggi di scelta per i consumatori, incentivi a investire nel miglioramento dei prodotti o dei servizi, etc. Né si può credere che sia compito di istituzioni come le banche centrali aumentare il grado di concorrenza nei mercati, o farne loro una “colpa” quando questo non accade. Tocca ai governi, in primis, fare ciò, attraverso normative sulla concorrenza e alle autorità antitrust, nazionali e sovranazionali, intervenire con norme e sanzioni. 

Ma, e questo è il punto cruciale, è molto rischioso per il regolatore intervenire a valle, interferendo con il meccanismo di formazione del prezzo, quando il problema è a monte, ossia in una struttura di mercato in cui pochi “incumbent” riescono a sfruttare la loro rendita oligopolistica (e il loro potere di influenza) per creare barriere all’ingresso di nuovi concorrenti su alcuni dei segmenti di mercato che presidiano. Per restare sul concreto, probabilmente gli algoritmi di Ryanair non penalizzerebbero così tanto i cittadini in viaggio verso Sicilia e Sardegna se altri vettori aerei avessero in estate la possibilità di accedere agevolmente e in forma flessibile agli slot disponibili negli aeroporti periferici del sud, spesso poco utilizzati. E le banche probabilmente farebbero automaticamente salire la remunerazione sui depositi se venisse incoraggiata la diffusione dei sistemi di pagamento digitali, in cui la creazione di “wallet” elettronici creati dai consumatori potesse essere incentivata da una remunerazione della liquidità ivi contenuta da parte degli operatori. 

Dunque, la grande scommessa che l’economia europea dovrà vincere nei prossimi mesi sarà quella di rendere efficiente la distribuzione dei guadagni di produttività tra fattori, anche e soprattutto attraverso una migliore implementazione della libera concorrenza nelle strutture di mercato che si sono venute a determinare nel contesto post-pandemico. In questo rinnovato contesto concorrenziale che si verrebbe a creare, la compressione dei margini di profitto, a vantaggio della remunerazione del capitale umano, diventa dunque una via attraverso la quale poter ripristinare il potere d’acquisto perduto per effetto della grande inflazione, senza avviare una pericolosa spirale prezzi-salari e senza rischiare di arrivare ad equilibri anti-competitivi che per definizione alla lunga sono inefficienti per gli stessi consumatori. Peraltro, questa via, per sua natura, travalica i confini geografici degli stati nazione, che non hanno l’autorità e gli strumenti per poter affrontare compiutamente il problema, e deve evidentemente diventare una sfida europea e globale.

L’altra via di recupero del potere d’acquisto del fattore lavoro agli interni degli stati è direttamente legata al ripristino di una più vivace dinamica salariale, tema particolarmente centrale per il nostro Paese, in quanto legato alla produttività del fattore lavoro. Come illustrato dal Rapporto annuale dell’Istat pubblicato lo scorso luglio, l’Italia presenta un ampio divario di produttività e costo del lavoro rispetto alle principali economie europee, che sembra riflettere un modello di sviluppo basato sul contenimento dei costi piuttosto che sull’innovazione, al fine di difendere o incrementare i margini di profitto. Fanno eccezione alcuni segmenti di impresa particolarmente competitivi come le Pmi manifatturiere soprattutto di medie (ma non piccole) dimensioni, le imprese esportatrici, le affiliate estere e le imprese con profili innovativi i cui livelli di produttività sono al livello di paesi con salari più elevati rispetto alla media nazionale ma comunque ancora distanti da quelli dei principali paesi europei. In assenza di un aumento significativo del livello di produttività del fattore lavoro, e anche su questa variabile sempre il Rapporto dell’Istat mostra che l’Italia è nelle ultime posizioni, difficilmente i salari nominali potranno crescere al livello delle altre economie europee. 

Per aumentare il livello di produttività del fattore lavoro occorrerebbe attuare delle incisive politiche pubbliche. Tuttavia, l’economista Dani Rodrik, dell’università di Harvard, ha dimostrato che le politiche di promozione della produttività aziendale potrebbero non funzionare, o addirittura ritorcersi contro il paese che le promuove. Rodrik sostiene che, dagli anni 90, quando i costi commerciali sono diminuiti e la produzione manifatturiera si è diffusa in tutto il mondo, molte aziende nei paesi a basso e medio reddito si sono integrate nelle catene di approvvigionamento globali e hanno adottato tecniche di produzione all’avanguardia. Di conseguenza, la produttività di queste aziende è aumentata notevolmente. Eppure, la produttività degli stati in cui erano domiciliate queste imprese in molti casi è ristagnata o addirittura regredita, drenata dalle catene del valore multinazionali. Questa evidenza mette direttamente in causa il modello globale di organizzazione della produzione rispetto agli obiettivi economici e sociali a scala nazionale che si vorrebbe raggiungere, e dunque torniamo al tema della struttura dei mercati globali.

Se fino al 2019 – prima che pandemia, guerra in Ucraina e crisi energetica sconvolgessero l’ordine mondiale – il libero mercato aveva sostanzialmente delineato le politiche, oggi i governi hanno la necessità di riappropriarsi delle loro prerogative. Ossia, le decisioni devono essere prese rivalutando più attentamente il rischio geopolitico, l’autonomia strategica e il potere di mercato dei principali operatori economici che attraversano e condizionano le loro economie. Questo vale anche per la direzione del cambiamento tecnologico che non può essere preordinata ma deve essere indirizzata dalle politiche economiche, come fecero con lungimiranza gli americani nel 1957 fondando la Defense Advanced Research Projects Agency (Darpa), uno snodo fondamentale per la superiorità tecnologica e quindi strategica di Washington.

Per far questo, è evidente che occorrerà ripensare al ruolo delle autorità antitrust nazionali, europee e sovranazionali, così come ai compiti di istituzioni novecentesche quali il World Trade Organization (Wto), che nel mondo di oggi hanno evidentemente minore efficacia, sia in termini di poteri che di strutture organizzative, per poter svolgere i propri compiti. Occorrerebbe, in sintesi, creare una nuova rete di regolatori globali, con la quale riscrivere le regole di un nuovo ordine mondiale. Per il rilancio di una globalizzazione regolata, più sostenibile, più duratura ed equa, in grado di usare l’enorme potenziale delle nuove tecnologie (in particolare dell’Intelligenza artificiale) a favore di una migliore redistribuzione della produttività dei fattori e della sostenibilità ambientale, all’interno di una rinnovata economia sociale di mercato, così come avvenne durante la ricostruzione post-bellica nel Vecchio continente nella seconda metà del secolo scorso. 

Una economia sociale di mercato basata su regole che vadano a favore della concorrenza, e non dei grandi oligopoli, nonché sul principio della sussidiarietà e della solidarietà distributiva tra individui e componenti sociali. Perché, senza il ritorno di questi principi, prevarrebbe soltanto la legge dei titani delle catene del valore, con il rischio che questa involuzione anti-mercato venga catturata ed egemonizzata dentro la dialettica geopolitica. Un esito distopico che dovrebbe far riflettere: sarebbe la fine dell’organizzazione economica e sociale così come l’abbiamo conosciuta, senza più liberi mercati e con evidenti rischi per la democrazia. 

Renato Brunetta è presidente del Cnel

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