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Il “paternalismo libertario”, pericoloso ossimoro, in un saggio di Sergio Di Filippo
"Nudge. Una spinta poco gentile?" invita a una riflessione sul tema dell'equilibrio tra libertà dell'uomo e spinta dello stato
L’estate, si sa, è un momento di pace e relax. Che si vada al mare, in montagna o altrove, il primo pensiero va al riposo della mente e del corpo. E tuttavia, una conciliante cornice paesaggistica può incentivare una riflessione intorno a questioni cruciali sull’uomo e la convivenza sociale. Questi ultimi, infatti, non vanno certamente in vacanza. Nudge. Una spinta poco gentile? scritto da Sergio Di Filippo (IBL Libri, 130 pp., 15 euro), può davvero diventare una non troppo impegnativa lettura estiva. Si tratta, infatti, di un volume sottile che scorre piacevolmente, nonostante la portata del tema.
L’oggetto del saggio, per riassumere, è quello del rapporto tra paternalismo e libertà, come da felice – nel senso di fortunata, in termini di rilevanza assunta per i decisori politici – sintesi dell’approccio in questione: paternalismo libertario (libertarian paternalism). Il libro prende di petto una tecnica dell’economia comportamentale, quel nudge, o “spinta”, che ha avuto una certa risonanza dopo la pubblicazione del volume omonimo del 2008 scritto dal giurista Cass Sunstein e dall’economista Richard Thaler. L’idea su cui si fonda un tale approccio è che gli individui, nel compiere le proprie scelte, tendano a non essere razionali. Meglio ancora, essi sono intrappolati, secondo i fautori della “spinta gentile”, in miriadi di bias cognitivi che renderebbero le loro azioni non meditate e, dunque, errate. Al contrario, mediante una serie di supporti paternalistici (strategie informative, avvertimenti, modificazioni del contesto), i decisori politici potrebbero mettere gli individui nelle condizioni di essere davvero freddi e imperturbabili calcolatori nel compiere questa o quella scelta.
I teorici di un tale approccio lo espongono in forma parzialmente problematica, ma ne argomentano a favore e lo avallano. Tuttavia, spiega l’Autore, è ben evidente come parlare di paternalismo libertario sia piuttosto fuorviante. Anzi, siamo nel campo di una vera e propria contraddizione in termini. Se per libertà consideriamo la possibilità di scegliere autonomamente, con ciò intendendo, com’è evidente, la conseguente maturazione della necessaria responsabilità a sostenere tali scelte, non si capisce come ciò possa accompagnarsi a strumenti manipolativi di natura paternalistica. Posto quest’ineludibile ossimoro, risulta inoltre estremamente pericoloso mettere il decisore politico – che peraltro sarà ben lieto di ricevere un’arma concettuale in più per ampliare il proprio raggio d’azione, e su basi pienamente legittime: assicurare la felicità delle persone – nelle condizioni di poter operare con una capillarità estrema. Dopo tutto, l’idea che soggiace a un tale approccio è che il decisore si trovi in condizioni di piena razionalità e assoluta conoscenza, mentre le persone comuni no.
Se così stanno le cose, ciò che questo paternalismo (illiberale) cela è un metodo di governo certamente meno coercitivo di quello classico, ma in virtù di ciò assai più insidioso e subdolo. Si tratta, allora, di una tecnica di ingegneria sociale o di politica architettonica volta a riplasmare la società sulla base di una presunta illuminata e superiore razionalità del decisore. Spinta gentile è un’espressione che serve solo per camuffare una politica terapeutica. Le persone, in questa prospettiva, non sono altro che invalidi che vanno curati e salvati da se stessi, avrebbe detto salacemente Michael Oakeshott. Cosa c’entri questo con la libertà responsabile degli individui è un mistero che può forse risolversi solo con l’intento di fortificare, ancora una volta di più, il Leviatano.