verso la legge di bilancio
Quali privatizzazioni? Il piano di Giorgetti e quello di Tajani
Il ministro dell'Economia annuncia in conferenza stampa la possibilità di "disinvestire" in alcune partecipazione dello stato, ma la situazione non è del tutto chiara e andrà concordata con le varie anime del governo
Il capo del Mef, Giancarlo Giorgetti, durante la conferenza stampa di lunedì dedicata alla manovra finanziaria, ha buttato lì una di quelle considerazioni che non potevano passare inosservate. “Certamente – ha detto rispondendo alla domanda di un giornalista sul contenimento degli sprechi di risorse pubbliche – ci sono delle situazioni che potrebbero originare una riallocazione delle partecipazioni dello stato. Oggi discutiamo di uno stato che entra in una partecipazione strategica (Tim), ma può darsi che ci siano altre realtà dove sia opportuno disinvestire”.
E’ bastato questo per accendere le fantasie di molti osservatori sull’arrivo di una nuova stagione di privatizzazioni. Il tema non è sfuggito agli analisti finanziari che seguono i titoli delle partecipate pubbliche in Borsa e che per questo attribuiscono un peso rilevante alle parole di Giorgetti. Equita, per esempio, fa osservare che “i proventi delle privatizzazioni costituiscono un’entrata una tantum e, pertanto, mirano principalmente alla riduzione del debito pubblico piuttosto che all’impiego per coprire le spese previste dalla manovra finanziaria”. Insomma, non è che si possono vendere i gioielli dello stato per far quadrare i conti, al massimo lo si fa per tentare di diminuire l’indebitamento. Detto questo, a maggior ragione ci si può domandare per quale ragione Giorgetti si sia espresso così in un contesto come quello della legge finanziaria. Pur rispondendo alla domanda di un giornalista avrebbe potuto glissare o chiarire che si tratta di argomenti, bilancio annuale e privatizzazioni, che non andrebbero mischiati. Ma c’era lo spunto della vendita della rete Telecom, a cui il governo Meloni ha deciso di offrire il massimo supporto con un investimento di 2,2 miliardi per una quota di minoranza “strategica” del 20 per cento, e così Giorgetti ha colto l’occasione per aprire un nuovo fronte. E lo ha fatto, tra l’altro, con un tono e un approccio liberal che sono apparsi in contrasto con lo spirito più dirigista di provvedimenti come la tassa sugli “extra profitti” delle banche o la riforma del mercato dei crediti deteriorati. In altre parole, il capo del Mef ha in un attimo ribaltato l’immagine dell’esecutivo in senso più liberista.
Di quali privatizzazioni si parli, quando, come e con quali altri ministri Giorgetti abbia avviato una riflessione non è dato di sapere. Ma si possono ricordare, come fa Equita, le principali partecipazioni detenute direttamente dal Mef e il loro valore attuale di mercato: il 53,3 per cento di Enav (equivalente a 1,1 miliardi), il 29,3 per cento di Poste (3,9 miliardi), il 4,7 per cento di Eni (2,3 miliardi), il 14,1 per cento di STMicroelectronics (5,5 miliardi), il 30,2 per cento di Leonardo (2,3 miliardi), il 23,6 per cento di Enel (14,7 miliardi) e il 64 per cento di Banca Montepaschi (2,1 miliardi). Per un totale di 30 miliardi di euro. E’ in questo gruppo che si trovano gli asset potenzialmente vendibili? Certamente sì, se si considera la già prevista cessione della quota di controllo di Mps. Ma ci può essere dell’altro? Pur essendo azzardato fare ipotesi perché si tratta di gruppi quotati, analisti e investitori si preparano a monitorare questa pattuglia di società e i loro movimenti futuri. Ovviamente, il patrimonio dello stato non finisce qua.
Il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, di recente ha lanciato l’idea di riaprire un processo di liberalizzazioni e di privatizzare i porti (idea subito bocciata dal collega di governo, Matteo Salvini) con una visione che abbraccia anche la gestione dei rifiuti e il trasporto pubblico locale. Settori, però, che sono ben rappresentati nei portafogli delle amministrazioni locali e non in quello dello stato centrale. Si vedrà quale visione di privatizzazione è destinata a prevalere all’interno del governo in cui, comunque, la riflessione è solo all’inizio. In Italia, il tema della vendita dei beni di stato è sempre stato discusso in un contesto fortemente ideologico, che talvolta, come ha fatto osservare in più di un’occasione Franco Bernabé, ne ha condizionato in senso negativo il risultato. Un esempio è proprio Telecom Italia a cui a tutti i costi si volle conferire una missione pubblica pur avendo deciso di metterla nelle mani dei privati (1997, governo Prodi), dando così origine a un conflitto di obiettivi e strategie che ha finito col mettere in ginocchio la società. Altre operazioni come quella di Poste Italiane (2015, governo Renzi) sono state di successo anche grazie agli ampi margini di manovra di cui ha goduto chi l’ha gestita. Chissà se il governo Meloni sta pensando di far tesoro delle lezioni del passato.