politica economica
Molto stato, poca concorrenza. Il thatcherismo al contrario di Meloni
L’impegno del governo a rispettare l’attività d’impresa è tanto forte nelle parole quanto evanescente nei fatti. Le dichiarazioni della premier alla prova dei fatti
Nell’intervista concessa ieri a Maria Latella sul Sole 24 ore, Giorgia Meloni ha ribadito le ragioni dell’imposta sugli extraprofitti delle banche: “Il profitto è chiaramente il motore di un’economia di mercato. Ma questo vale quando il profitto deriva dall’intraprendenza imprenditoriale. Cosa diversa è quando registriamo profitti frutto di rendite di posizione”. E ancora: “Io non tasserò mai il legittimo profitto imprenditoriale, ma non intendo difendere le rendite di posizione”. Queste risposte sono interessanti non tanto per la (fragile) difesa del nuovo tributo, ma perché forniscono una chiave per interpretare la politica economica del governo. Sfortunatamente, l’impegno a rispettare l’attività d’impresa è tanto forte nelle parole, quanto evanescente nei fatti.
Alla premier e ai suoi ministri piace richiamarsi ai grandi leader conservatori del passato, Margaret Thatcher e Ronald Reagan. In effetti, essi avevano messo in atto un’agenda basata sulla libertà economica, fatta di riduzione delle tasse, tagli della spesa, liberalizzazioni e confronto muscolare con chi si opponeva alle riforme. Un’agenda basata sull’assunto che lo stato non è la soluzione ai nostri problemi: lo stato è il problema. Invece la strategia italiana sembra seguire una traiettoria opposta. Molti hanno lodato, giustamente, la prudenza che ha contraddistinto la scorsa legge di Bilancio: ma ciò in concreto ha implicato semplicemente lo sforzo di non aprire i cordoni della borsa più di quanto già non lo fossero. Nulla di paragonabile a quanto fatto dalla Lady di Ferro, che nel corso degli anni Ottanta abbatté la spesa dal 45 per cento del pil al 34 per cento.
Non solo: contrariamente alle deregolamentazioni che travolsero il mondo anglosassone (e in seguito, parzialmente, l’Europa), Palazzo Chigi ha messo in atto forme di vera e propria ri-regolamentazione. Mentre varava la tassa sugli istituti di credito, il ministro delle Imprese Adolfo Urso ha introdotto i nuovi vincoli sulle politiche di prezzo delle compagnie aeree e sulla vendita delle sofferenze bancarie. Misure che, anziché dare spazio all’iniziativa delle imprese, ne ingessano la condotta e in ultima analisi rendono l’Italia un paese meno attrattivo. Non solo: la presenza pubblica si è fatta più ingombrante anche in Borsa, con la riorganizzazione di Tim e i progressi sul dossier della rete unica, uno stravolgimento senza precedenti in Europa che vede lo stato riprendere le redini delle infrastrutture di telecomunicazione.
Dove l’interventismo non è stato hard, perché non era materialmente possibile, non si è comunque rinunciato a ribadire che nel nostro paese l’economia è dominata dalla politica. Lo si è fatto, anzitutto, con l’ennesimo ampliamento del golden power e il suo esercizio sempre più aggressivo. Ma si è perseguita questa linea pure con le ripetute pressioni esercitate sulle imprese nel nome del cosiddetto trimestre anti-inflazione, ossia il tentativo di orchestrare dall’alto le politiche di prezzo di produttori e rivenditori di prodotti alimentari. Insomma: il governo ha riconosciuto (come Reagan e Thatcher) che l’inflazione è il nemico pubblico numero uno, ma poi anziché sostenere l’aumento dei tassi della Banca centrale europea ha attaccato l’Eurotower, invocando semmai la via sudamericana dei calmieri (per fortuna senza averne gli strumenti). Né si è persa l’occasione di mettere i bastoni tra le ruote a chi sperava di proporre agli italiani – o produrre nel nostro paese – beni innovativi: tutti ricordano le assurde polemiche sulla farina di grillo e la carne sintetica.
Men che meno il governo è stato thatcheriano di fronte ai rentier. Arthur Scargill (il capo dei minatori inglesi) e Robert Poli (il leader degli assistenti di volo americani) devono nutrire una ben giustificata invidia per Loreno Bittarelli, che ha guidato i tassisti romani nella vittoriosa crociata contro qualunque per quanto timido tentativo di ampliare le licenze. Insomma: l’ammirazione di Meloni & Co per Thatcher & Co avrebbe più senso se non si limitasse a una celebrazione della memoria, ma fosse uno stimolo a seguirne l’esempio.