è finita la resilienza?
Decresce il pil, si riduce l'occupazione e cala la fiducia. La pacchia è finita? Non è detto
Secondo gli ultimi dati Istat il pil italiano è calato dello 0,4 per cento. Questo che significato ha? Non è detto che sia già finito l'effetto post Covid. Le opinioni degli economisti
La decrescita del pil nel secondo trimestre certificata ieri dall’Istat (meno 0,4 per cento rispetto al primo trimestre) dopo una lunga serie di trimestri positivi e dopo il calo di fiducia di imprese e famiglie e la riduzione dell’occupazione a luglio, pone una domanda: la resilienza dell’Italia è terminata?
Il quesito è rilevante anche per l’impatto che la revisione dell’ufficio statistico nazionale potrebbe avere sui conti pubblici, visto che la contrazione è superiore alle stime preliminari (meno 0,3 per cento) rendendo più arduo raggiungere l’obiettivo dell’1 per cento di crescita del pil previsto dal governo Meloni nel Def. In più, a risultare in diminuzione nel secondo trimestre sono tutti i principali aggregati della domanda interna, in particolare gli investimenti in capitale fisso si sono contratti dell’ 1,8 per cento, segno che le imprese stanno tirando i remi in barca.
Insomma, è un incidente o è un’inversione di tendenza? “Per saperlo con certezza dobbiamo attendere il dato del terzo trimestre – dice al Foglio Lucio Poma, capo economista di Nomisma (Università di Ferrara) – ma a prima vista mi pare il rallentamento di una macchina che stava correndo a 200 all’ora e adesso corre sempre ma a 160. La resilienza dell’Italia non è in discussione, visto che il nostro paese è uscito meglio di chiunque altro in Europa dal Covid e dalla crisi energetica. Mi preoccupa, però, la crisi tedesca. Quella sì che potrebbe avere un impatto negativo sulle filiere delle pmi italiane e, di conseguenza, sulle prospettive economiche dell’Italia”. Insomma, il segno meno spaventa ma non è il caso di allarmarsi, secondo Poma, anche perché, spiega in sintesi, l’indicatore che misura la fiducia di famiglie e imprese , nonostante il calo, si mantiene ben al di sopra dei 100 punti mentre la perdita dei posti di lavoro registrata a luglio è minima e circoscritta ai contratti a tempo determinato. “Da quando insegno all’Università – afferma - non mi era mai capitato di vedere tante assunzioni tra i miei neo-laureati, e non parlo dei talenti ma della massa degli studenti. Per contro, ogni giorno incontro imprese e categoria produttive e la lamentela è sempre la stessa: si fa fatica a trovare forza lavoro. Se le cose stanno così, come si fa a dire che l’Italia si sta fermando?”. Poma, da osservatore del mondo delle imprese manifatturiere, che considera il vero motore del paese perché hanno dimostrato una capacità di reazione eccezionale agli choc esterni, si dice ottimista fermo restando “la variabile tedesca che è ancora tutta da valutare”.
Ma come si spiega allora lo stop del secondo trimestre? Per l’economista Marco Fortis dell’Università Cattolica, dove insegna economia industriale e commercio estero, i dati dell’Istat mostrano in modo chiaro che il calo del pil è dovuto soprattutto alla frenata dell’industria edile e alla fine del superbonus. “La perdita degli investimenti fissi nel periodo è imputabile soprattutto a questo settore, mentre è trascurabile in quello manifatturiero – afferma – ma l’aspetto più curioso è che al calo della domanda interna ha dato un deciso contributo la spesa pubblica che è diminuita dello 0,3 per cento nel periodo. Mi domando come sia possibile in un momento in cui l’attuazione del Pnrr dovrebbe far crescere e non ridurre gli investimenti pubblici. E’ evidente che l’impatto della messa a terra del Piano europeo sulla nostra economia ancora non si vede”. Insomma, mentre c’era da aspettarselo che la fine degli incentivi all’edilizia avrebbero prodotto uno scossone, è sorprendente che l’amministrazione statale contribuisca a far diminuire il pil con una spesa negativa. “Detto questo, eviterei ogni forma di allarmismo: rispetto all’ultimo trimestre del 2019, quindi ante Covid, il nostro paese è cresciuto di circa il 2 per cento mentre altri, come Germania, Spagna e Regno Unito, stanno facendo davvero fatica. Italia e Francia sono gli unici tornati ai livelli pre crisi, ma noi siamo cresciuti anche di più”. In ogni caso, la frenata del quarto trimestre va letta nel contesto europeo in cui l’impatto del caro tassi sta cominciando a farsi sentire. E qui la “variabile tedesca” di cui parla Poma gioca un ruolo essenziale. “Per la verità lo stato di salute della Germania mi preoccupa più per l’aspetto politico che per quello economico – conclude Fortis –. Nel paese sta crescendo un’onda populista che rischia di minarne il ruolo di pilastro d’Europa. Ma si vedrà. Per quanto riguarda l’Italia, non vedo grandi preoccupazioni, ma da com’è andato il secondo trimestre, credo che le aspettative di fine anno andrebbero ridimensionate, a meno che i dati sul turismo del terzo trimestre che arriveranno tra poco non riserveranno una sorpresa positiva. Il che non è da escludersi”.