L'analisi
Monte dei Paschi, il monte dei peccati
Contro la privatizzazione, i nazionalsovranisti vogliono tenere Mps accollato ai contribuenti. L’impasse del governo
Una volta era un castello che, dall’alto dei suoi 479 metri, controllava la val d’Orcia dominata dalla rocca di Radicofani, regno di Ghino di Tacco che tartassava i pellegrini lungo la via Francigena. Per secoli dipendente dall’Abbazia di San Salvatore sul monte Amiata, Contignano passa ai Farnese i quali lo cedono ai Salimbeni, la più potente famiglia senese, finché non arriva il Comune che porta con sé il Monte dei Paschi, cioè dei pascoli… e del potere. Da allora non se ne è più andato. Nel cortile del borghetto con al centro un pozzo, lo sportello serve una manciata di residenti (appena 270) e si anima solo in estate soprattutto sotto ferragosto per la sagra dei ravioli rigorosamente fatti a mano dalle donne del paese. Ma come si fa a chiuderlo? Il Monte è la vita. Sostiene i pastori sardi, figli e nipoti di quelli immigrati nel Dopoguerra che preparano il pecorino chiamato di Pienza, finanzia i bed and breakfast, unge le ruote di ogni attività.
La crisi che porta Mps sull’orlo del crac s’abbatte come un castigo divino, una catastrofe all’apparenza innaturale, qui come su tutto il territorio senese e gran parte della Toscana. E’ il 2012 e da allora nulla è più come prima. Piccole banche locali cercano di approfittarne, ma ci riescono solo in parte, la Popolare dell’Etruria viene da Arezzo e con gli aretini i rapporti sono pessimi da secoli, poi anche lei fallisce, innescando uno psicodramma politico-giudiziario che mette alla gogna Matteo Renzi, Maria Elena Boschi e le rispettive famiglie. Il Monte si sbriciola, ma non crolla del tutto. E ogni tentativo di trovare una soluzione a questa sopravvivenza forzata e costosa (circa trenta miliardi di euro tra sussidi e aumenti di capitale) è finora fallito. Ha bruciato fior di banchieri, ha consumato le meningi di ministri, ha sorpreso economisti di primo piano, per finire nelle casse dello stato con l’impegno di venire risanato grazie ai soldi pubblici e solo dopo privatizzato.
Sono passati sette anni, tanti quanti la biblica remissione dei debiti, ma il Monte è ancora lì, nessuno ha ceduto alle lusinghe dei governi, nessuno lo ha voluto per davvero. Chi ha cercato di tagliare le radici è stato bruciato come un eretico nel medioevo, chi ha voluto rinverdire il passato è rimasto vittima delle sue logiche politiche, massoniche, clientelari che dir si voglia. Anche il governo Meloni è finito in un impasse dal quale non si capisce come possa uscire, tra la necessità di vendere non tanto per far piacere all’Europa, ma per far piacere al Tesoro in cerca di denaro liquido, e la voglia di tenere una banca di stato come vorrebbe la Lega per dare un dispiacere a due palazzi: Chigi a Roma e Berlaymont a Bruxelles (decidete voi chi viene prima). Ormai Mps è la nona azienda di credito italiana per capitalizzazione (vale in borsa meno di tre miliardi di euro), troppo piccola per essere grande, troppo grande per essere trattata come se fosse piccola, troppo locale per diventare davvero nazionale, troppo estesa per restare locale.
A Siena tutti lavoravano in un modo o nell’altro per il Monte e il Monte lavorava per tutti in un modo o nell’altro: dai fantini del Palio ai giocatori di calcio e di basket. Persino Emilio Giannelli, il vignettista famoso del Corriere della Sera, si occupava di regole e pandette. E i massoni? Nel 1993 l’Unità, edizione toscana, pubblicò la lista dei “muratori” affiliati alle logge di Firenze e di Prato. Duemila nomi; però, pur avendo la mappa completa della regione, il giornale comunista decise di fermarsi. Il 16 novembre, un piccolo quotidiano, Il Cittadino, editore il medico Fabio Rugani, grande sostenitore del candidato sindaco Pierluigi Piccini, lanciò il suo scoop: risultavano iscritti magistrati, professori e mezza federazione del Pds. Ma scivolò su due bucce di banana: l’onorevole Roberto Barzanti, vicepresidente del Parlamento europeo, e Luigi Berlinguer: nessuno dei due era massone.
Guerra per bande o meglio per logge. Ma questa è Siena e il Monte la rispecchia. La tradizione voleva che il sindaco fosse socialista, il presidente della provincia comunista e alla Dc, all’opposizione, spettava la banca. Fin dalla sua nascita nel 1472, quando gli furono conferiti gli affitti dei pascoli (i paschi) per poter finanziare le imprese dei senesi, il Monte è stato un bene collettivo. Dunque era la collettività a deciderne le sorti direttamente, poi attraverso la Fondazione che dal 1995, dopo la pseudo-privatizzazione, controllava le azioni e faceva capo al Comune di Siena, alla provincia, alla curia, all’università e alla regione.
Nonostante la sua “senesità”, Mps ha spesso avuto l’ambizione di giocare partite nazionali, come il credito fondiario dopo l’unità d’Italia o le prime esperienze di bancassurance negli anni 90 del secolo scorso. Una delle rendite eccellenti è stata la riscossione dei tributi per il comune di Roma. La sua forte proiezione immobiliare l’ha spinto a scommettere anche su Silvio Berlusconi: è il Montepaschi a finanziare Milano 1 e Milano 2; il Cavaliere lo ha ricordato più volte ed è restato fedele. La riforma dello statuto e la quotazione in borsa del 1999 aumentano l’autoreferenzialità. Il processo di aggregazione bancaria che parte negli anni 90 vede il Monte isolato, una debolezza alla quale la stessa Banca d’Italia cerca di rimediare. Il partner ideale sembra la Banca Nazionale del Lavoro, allora proprietà del Tesoro. Il progetto vero, in realtà, è un ménage a trois con il Bbva, Banco de Bilbao Vizcaya Argentaria, entrato in Bnl nel 1998, al momento della formale privatizzazione. La Fondazione Montepaschi può diventare azionista importante di un grande gruppo internazionale, ma prevale la sua senesità. A spingere per la seconda volta Mps verso la Bnl è un progetto diverso, alternativo a quello spagnolo: una banca di sinistra, anzi a egemonia Ds, con la leadership di Unipol, la compagnia assicurativa della Lega delle cooperative, le coop rosse, guidata da Giovanni Consorte. “Abbiamo una banca”, si lascia sfuggire Piero Fassino quando Consorte lo informa che probabilmente è fatta perché è convinto di avere in mano la maggioranza del capitale.
Il “concerto rosso” finirà in tribunale. Buona parte degli stessi soggetti partecipavano anche alla scalata all’Antonveneta guidata da Gianpiero Fiorani. E, dulcis in fundo, molti di loro fornivano i quattrini a Stefano Ricucci nel suo velleitario assalto al Corriere della Sera. La spaccatura attraversa anche Siena, la Fondazione e i vertici della banca. Il 23 giugno 2005 la commissione Finanze del Senato approva un emendamento al disegno di legge sul risparmio che sterilizza al 30 per cento il diritto di voto delle fondazioni nelle assemblee delle banche. Su misura per Mps: il suo 49 per cento è nelle mani della Fondazione, ma con le nuove regole sarebbe pesato solo per il 30 per cento. Tra i Ds votano tutti contro, tranne due dalemiani, Massimo Bonavita e Nicola Latorre, che si astengono. Quest’ultimo, ex segretario di Massimo D’Alema, dichiara: “Le Fondazioni sono il simbolo della conservazione”. Dice no anche la nuova leva di uomini che governano Siena: il sindaco Maurizio Cenni, il presidente della provincia Fabio Ceccherini, il presidente della Fondazione Montepaschi Giuseppe Mussari e Franco Ceccuzzi che diventerà deputato dell’Ulivo e sindaco di Siena con il Pd: si dimetterà dalla carica il 20 maggio 2012 per il dissesto finanziario della città e del Monte. Ma prima c’è l’operazione Antonveneta.
Siamo nel 2007 e l’intera mappa creditizia cambia di nuovo in modo radicale: Intesa si fonde con il Sanpaolo di Torino e Capitalia (ex Banca di Roma) viene maritata all’Unicredit. Il Monte resta solo. Mussari, che nel frattempo è passato alla presidenza della banca, rischia di fare il vaso di coccio. Sul mercato c’è l’Antonveneta finita tra le braccia prima dell’olandese Abn Amro, poi del Banco di Santander di Emilio Botìn che se ne vuol disfare. Costa molto, troppo per Mps, ben 9 miliardi e 267 milioni di euro, ma l’alternativa è restare una realtà di provincia. Mussari osa, vara un aumento di capitale da un miliardo di euro riservato alla JP Morgan, che paga emettendo titoli senza scadenza convertibili in azioni. Il meccanismo allora inedito, chiamato con l’acronimo Fresh, in sostanza è un debito coperto da un pegno legato all’andamento del titolo. Può essere assimilato a capitale fresco (in inglese fresh)? Bankitalia dubita, ma non blocca. Intanto crolla la Lehman Brothers, scoppia una delle peggiori crisi finanziaria della storia contemporanea, i contratti derivati diventano il nuovo sterco del diavolo.
Mps ne ha in pancia due acquistati nel 2005, dai fantasiosi nomi greci, Alexandria e Santorini; per liberarsene ricorre all’aiuto della banca giapponese Nomura e della Deutsche Bank. L’operazione genera perdite che potrebbero essere assorbite, ma nel frattempo scoppia la seconda crisi, quella dei debiti sovrani. Mps vacilla, la Banca d’Italia ispeziona, la magistratura si agita, si parla di una mega tangente legata all’acquisto di Antonveneta con un prezzo “fuori mercato”. Ma la vera debolezza del Monte non è tanto nei magheggi finanziari, bensì nell’enorme ammontare di prestiti che rischiano di diventare inesigibili, perché frutto di un’attività creditizia legata sostanzialmente al localismo clientelare. Metterlo in discussione è troppo rischioso per l’intero “sistema Siena” e dintorni. Meglio sbattere in prima pagina la “turbofinanza”. Tutto precipita nel 2012, Mussari e i suoi uomini diventano imputati in una serie di processi che ancora non sono finiti. Un anno fa la montagna di carte bollate cade su se stessa, la corte d’appello di Milano assolve gli imputati tra “il fatto non sussiste” o “non costituisce reato”. Il Foglio ha raccontato tutto in dettaglio il 23 maggio 2022 sotto il titolo “Un’inchiesta andata a Monte”.
Ci sono stati errori? Certo, ma alla fine i giudici hanno distinto tra lo sbaglio e la colpa. O meglio alcuni giudici. Perché la maledizione di Alexandria s’è abbattuta anche su Alessandro Profumo e Fabrizio Viola che come presidente e amministratore delegato hanno cercato di rimettere in sesto la banca, ma sono stati accusati di mascherare le perdite. La macchina giudiziaria sta ancora sbuffando con esiti contraddittori e spesso farseschi: i controllori non hanno controllato, non potevano non sapere, e via via colpevolizzando. Anche su questo il Foglio ha scritto molto (“La condanna a Profumo puzza di gogna”, 21 ottobre 2020). Alla fine della lunga odissea dalla quale non è certo uscito il meglio del moto perpetuo tra media, finanza, magistratura e politica, arriva la mano pubblica. Il 22 dicembre 2016 fallisce l’aumento di capitale, il ministro dell’economia Pier Carlo Padoan e il capo del governo Paolo Gentiloni, entrambi targati Pd, entrambi nazionalizzatori riluttanti, tirano le conclusioni, sborsano 5,4 miliardi di euro e si mettono in cassa il 68 per cento della banca. Un soluzione “temporanea”, così viene definita. Ma il tempo, lo sappiamo, è relativo.
Cos’è oggi il Monte che va privatizzato, ma che i nazionalsovranisti, a cominciare dalla Lega, vorrebbero accollare ancora ai contribuenti i quali lo tengono in vita ormai da undici anni? L’ultimo assegno di 1,6 miliardi di euro è stato staccato dal governo Meloni alla fine dello scorso anno all’interno di un ulteriore aumento di capitale pari a 2,5 miliardi. Diamo innanzitutto uno sguardo ai conti. Nel 2022 il Montepaschi ha registrato ricavi per tre miliardi e 88 milioni di euro con una crescita del 3,6 per cento in media, spinta dall’aumento dei margini d’interesse (più 26 per cento) i quali hanno compensato una riduzione delle commissioni (-8 per cento), del trading e della gestione delle partecipazioni azionarie. Dunque, è il rialzo del costo del denaro a far crescere gli introiti grazie alla differenza tra tassi attivi e passivi. Nonostante ciò, il risultato è stato negativo con una perdita di 225 milioni di euro, mentre l’anno precedente si era chiuso con un utile di 310 milioni. Ci sono difficoltà, anche se i conti sono migliorati nel primo trimestre di quest’anno e in ogni caso il Monte non è più il disastro di un tempo. Molti dei crediti deteriorati, vere bombe a orologeria, sono stati ceduti. Secondo il presidente Nicola Maione la banca è “fuori dal guado”, grazie all’amministratore Luigi Lovaglio che l’ha rilanciata rafforzando il patrimonio ed è riuscito a tagliare quattromila dipendenti. Maione, originario di Lamezia Terme, è un avvocato specializzato in diritto commerciale, nominato a marzo dal governo Meloni al posto di Patrizia Grieco. “Una eccellenza calabrese”, dichiara Roberto Occhiuto, già Forza Italia, presidente della Regione.
Lovaglio, nato a Potenza nel 1955, ha trascorso mezzo secolo in banca soprattutto al Credito Italiano poi Unicredit. E’ arrivato l’anno scorso con il governo Draghi, al posto di Guido Bastianini nominato dal governo Conte, il quale ha fatto causa contro il suo licenziamento. Fughe di notizie e tensioni al vertice avevano “progressivamente incrinato” il rapporto di fiducia e il consiglio di amministrazione aveva ritirato le deleghe. Con il nuovo capo azienda il clima è cambiato e Giancarlo Giorgetti, in quanto azionista di riferimento, l’ha confermato al vertice. Toccherà a lui accompagnare la banca verso…. dove? La fusione con un altro istituto? Si è parlato a lungo di Bpm, ma l’amministratore delegato Giuseppe Castagna intende andare avanti da solo. Sfuma la Bper (controllata dall’Unipol) che punta alla Popolare di Sondrio. Restano Unicredit che ha già detto no due anni fa e Crédit Agricole, i francesi, sempre loro. La Lega innalza barricate, prima vuole vedere come andranno le elezioni europee. Anche a Siena ha vinto la destra e Nicoletta Fabio, Fratelli d’Italia, ha superato con il 52 per cento Anna Ferretti, candidata del centrosinistra. Ma prevale la continuità: Mps è e deve restare una bandiera, non meno del Palio. Le sorti del Monte sono sempre state in mano alla politica e ora anche alla magistratura. Davvero è la banca ideale per il mitico Terzo polo? O resterà così, a presidio della nuova via Francigena che da palazzo Salimbeni porta a palazzo Chigi? Mps, il Monte del Potere di Siena.