Soros succession. Che fine faranno i miliardi del finanziere
I dissidi con il figlio maggiore Jonathan, l’eredità al minore Alex, più “politico” del padre
Si chiamava György Schwartz, nato il 12 agosto 1930 a Budapest, allievo di Karl Popper alla London School of Economics e paladino della società aperta; poi è diventato George Soros. Il cognome acquisito è parola palindroma che in ungherese significa “successore” e in esperanto “salirà”, scritta per la prima volta su documenti falsi fabbricati nel 1944 per sfuggire ai nazisti. George è la traduzione inglese del suo nome, adottata a Londra dove si rifugiò nel 1947 per non finire sotto il tallone comunista. Il giovane ebreo, profugo errante, è salito davvero in alto, ha costruito un impero privato, politico e finanziario, grazie a un singolare impasto di pensiero, militanza, fiuto e pelo sullo stomaco e non ha mai voluto cederne lo scettro. Finché a 92 anni non è potuto più sfuggire al primo destino del suo pseudonimo, e ha passato il testimone a quello tra i propri figli che meno sembra essersi occupato degli affari di famiglia (anche se tutti sono convinti che sarà il vecchio fondatore a dire, finché avrà fiato, l’ultima parola).
La fuga dai nazisti nel ’44, quella dal tallone comunista nel ’47. Ha costruito un impero con un impasto di pensiero, militanza, fiuto e pelo sullo stomaco
Il Wall Street Journal ha intervistato l’erede, Alexander Soros, e ha tratteggiato il ritratto di un miliardario singolare forse ancor più del padre. Le sue passioni? Football americano, filosofia e politica, in questo ordine. La tesi di laurea alla New York University era intitolata: “Il Dioniso ebreo: Heine, Nietzsche e la politica della letteratura”. Si definisce un intellettuale di centrosinistra; con gli occhialoni sul naso e quel filo di barba che gli incornicia il sorriso, sembra proprio quel che dice di essere. Il denaro? Non è lo sterco del diavolo, ma poco ci manca. Di finanza non s’è mai interessato, eppure dovrà gestire oltre 25 miliardi di dollari.
Jonathan giocava a tennis con il padre, lavorava al fondo speculativo e alla fondazione. Tutti erano convinti che avesse il physique du rôle
Alex nasce nel 1985 a New York ed è il primo frutto del ventennale matrimonio (concluso nel 2005 con un ricco divorzio) tra George Soros e la seconda moglie Susan Weber, storica, specializzata in arti decorative e cultura materiale. Un fratello più giovane, Gregory, fa l’artista. In famiglia ci sono altri due figli e una figlia con la prima moglie Annalise sposata nel 1960: Robert Daniel, sessantenne, Andrea Colombel, nata nel 1965 e Johnathan Tivadar, 53 anni, che sembrava l’erede destinato, l’unico con la passione e l’abilità paterna nel fare denaro e nello stesso tempo battersi contro il suo potere malsano. Ha co-fondato Friends of Democracy, un SuperPAC (Political Action Committee, un comitato per effettuare donazioni per sostenere oppure ostacolare candidati, promuovere referendum e iniziative legislative) il cui obiettivo sembra una contraddizione in termini: raccogliere soldi per ridurre l’influenza dei soldi sulla politica.
Alto e atletico, Jonathan giocava a tennis con il padre, lavorava al fondo speculativo che ha reso ricca la famiglia e si occupava della fondazione che eroga miliardi a sostegno dei movimenti liberal e si batte contro i Putin o gli Orbán del mondo. Tutti erano convinti che lui avesse il physique du rôle perfetto, un Soros calzato e vestito, finché tra due personalità forti non scoppiano dissidi che si rivelano insanabili. George è impulsivo, Jonathan analitico e contemplativo. Per quanto rispettoso, il figlio s’impunta quando non è d’accordo. Un giorno si scontrano sulla scelta di due posizioni senior in azienda e il capofamiglia sente che la sua autorità è stata sfidata fino al punto di non ritorno. È il 2011 e Jonathan nel tentativo di riportare pace in famiglia (o almeno così disse) si dimette. “Non andavamo d’accordo su certi punti, quando è diventato evidente a entrambi, soprattutto a lui, ha deciso di andare per la propria strada”, commenta il padre. Jonathan oggi vive a Manhattan con la moglie e i tre figli, ha fondato la Athletes Unlimited che sostiene le atlete nel softball, nel basket, nel volley, nel lacrosse molto popolare in Nord America che sembra derivi da un antico gioco degli amerindi. Inoltre è coinvolto in progetti di pubblico interesse. Troppo poco per un Soros?
Nell’ombra intanto cresce Alex, introverso, timido, spesso sovrappeso, imbarazzato (soprattutto da ragazzo) dalla sua ricchezza, un nerd, un secchione che se ne va in giro con un taccuino sul quale annota tutto quello che secondo lui non va. A differenza dal padre, collerico e abituato a decidere da solo, crede nel lavoro di gruppo e ama affrontare ogni dettaglio (quelli segnati nel bloc-notes) con i collaboratori che a volte diventano matti nel seguire le sue sottigliezze da filosofo, come ammette uno di loro. Ciò non vuol dire che non ami divertirsi, quando era più giovane si circondava anche lui di top model, non perde una partita dei New York Jets, la squadra del cuore, ed è anche un fan della musica hip hop con tanto di break dance, insomma segue le mode del newyorchese d’origine controllata. Nonostante sia digiuno di magheggi e maneggi finanziari, Alex ha conquistato la fiducia del padre discutendo non di Wall Street, ma di idee, geopolitica e storia (ha preso un dottorato a Berkeley).
Alex cresce timido, introverso, nerd. Ha conquistato la fiducia del padre discutendo non di Wall Street, ma di idee, geopolitica e storia
Dopo il divorzio sono diventati più vicini e hanno condiviso molte scelte importanti, anche quando il mago della borsa ha sbagliato le sue puntate durante la grande crisi finanziaria del 2008, perdendo una vagonata di dollari. A lungo Alex s’è dedicato alle sue campagne progressiste, alla militanza per la libertà e i diritti civili. E adesso? Soldi e politica, un connubio micidiale, ma, per quanto li voglia tenere separati, “finché l’altra parte non lo farà” risponderà con la stessa moneta – così si giustifica con Gregory Zuckerman nell’intervista per il Wall Street Journal. L’altra parte è la vecchia destra da sempre nemica di suo padre e la nuova destra, quella di “The Donald”, che ha rinfocolato gli antichi rancori e i pregiudizi antisemiti. Soros contro Trump, sarà uno scontro al vertice del capitale, quello rosso e quello nero, ce ne sarà da raccontare l’anno prossimo. Anche se non gli piace, insomma, Alex riconosce apertamente quanto il denaro sia fondamentale anche per le buone cause: se viene a mancare chi le sosterrà? Il doppio binario che George Soros ha percorso con tanta maestria, passa anch’esso alla nuova generazione. Così, prima di raccontare idee e idiosincrasie del successore ricapitoliamo le tappe fondamentali del capostipite.
György Schwartz è prima un sopravvissuto, poi un esule; prima uno studioso di filosofia politica, poi un finanziere; è uno speculatore senza scrupoli e un benefattore; un attivista schierato senza riserve in quella vasta area che gli americani chiamano liberal e un capitalista di gran successo. Nemico pubblico numero uno dei complottisti antisemiti, i post comunisti, i neo fascisti, Vladimir Putin e i suoi accoliti, Marine Le Pen e Matteo Salvini; ha finanziato Solidarnosc in Polonia, Carta 77 in Cecoslovacchia, Sakharov in Unione sovietica, la rivoluzione delle rose in Georgia, quella arancione in Ucraina. I suoi avversari sostengono che c’è Soros persino dietro le Pussy Riot, il movimento verde in Iran, le primavere arabe (anche se in realtà i Fratelli musulmani sono i veri pupari), per non parlare delle Ong che trasportano i migranti in combutta con gli scafisti (Salvini docet). Di fronte a lui tremano i despoti; altro che i Rothschild, in fondo loro pagavano i debiti delle corone, compresa quella di Sardegna, e sostenevano l’aristocrazia del capitale.
In Italia è diventato famoso per aver contribuito ad affossare la lira, la Banca d’Inghilterra l’ha messo all’indice perché ha massacrato la sterlina. Viene chiamata la battaglia delle due lire, quella italiana e quella sterlina, e si svolse tra la primavera e l’estate del 1992. Il 16 settembre, ricordato come “mercoledì nero”, Soros vendette a più non posso mentre le due valute si svalutavano senza posa e guadagnò in un sol giorno oltre un miliardo di dollari. La storia è sempre più complessa, la crisi non fu provocata da lui, le cause profonde rimandano allo sconquasso anche economico che la fine dell’Unione sovietica provocò in Finlandia e nella Scandinavia con una reazione che colpì gli anelli deboli della catena finanziaria: cominciò con il markka e finì con la lira. Sulla sterlina Soros ha spiegato che si era limitato a interpretare i segnali del mercato, il quale considerava sopravalutata la moneta di Sua Maestà; quanto all’Italia aveva seguito la Banca centrale tedesca che infatti non volle sostenere la lira affinché restasse nella fascia di oscillazione prevista dallo Sme (l’accordo di cambio europeo): “Bastava leggere le analisi della Bundesbank e saperle interpretare”, ha detto a sua discolpa. Ma il circo mediatico-politico ha bisogno di mostri.
Soros apprende la filosofia a Londra dove si era rifugiato nel 1947, perché, sfuggito ai lager grazie al buon cuore di un funzionario ungherese di nome Tivadar, non voleva morire in un gulag. Si mantiene facendo il facchino e il cameriere, mentre ascolta le lezioni di Karl Popper. Nonostante la laurea non riesce a trovare lavoro nell’Inghilterra impoverita dalla Guerra mondiale e vende depliant turistici lungo la costa del Galles. Solo nel 1954 ottiene un posto nella banca d’affari Singer & Friedlander perché il direttore è anche lui ungherese. Due anni dopo sbarca a New York dove lavora nella società di brokeraggio F. M. Mayer come specialista dei mercati europei. Una conoscenza che gli apre molte porte. Negli anni 70 comincia a mettersi in proprio con il suo Fund Management. Si apre una nuova èra, quella della “turbofinanza” che trionfa nei due decenni successivi e Soros ne diventa uno dei maggiori esponenti, manovra grandi flussi di denaro con gusto per il rischio, poi pontifica contro gli eccessi del mercato. Condannato in Francia per insider trading, sostiene di applicare la quantistica alla finanza e denomina Quantum il proprio fondo d’investimenti. A parte il suo mito Popper (chiama Open Society Institute, poi diventato Foundations, la proiezione politica presente in una sessantina di paesi), difende Friedrich von Hayek “dall’estremismo dei seguaci di Chicago” e si sente più vicino a John M. Keynes (che tra l’altro s’arricchì in borsa). Ha diffuso concetti come “riflessività” e “disequilibrio dinamico” per interpretare i cicli economici, ma sostiene che il “fondamentalismo del mercato” è la fonte di molti dei nostri guai. Sarebbe d’accordo anche Giulio Tremonti.
L’elezione di Trump è uno spartiacque per Alex. Molti gli consigliano toni bassi, lui raddoppia l’impegno con i democratici
La rottura con Jonathan lo spinge a scoprire e rivalutare le qualità di Alex il quale aveva lavorato part-time presso l’Open Society Foundations dal 2004 al 2006 senza fare molta impressione, meno che mai come potenziale successore. Partecipava alle riunioni, ma non parlava quasi mai, finché di punto in bianco non decide di partire per le più remote lande dell’Amazzonia, incontrando i leader indigeni e prendendo nota delle loro esigenze sull’onnipresente taccuino. Tra una spedizione e l’altra, entra nel consiglio di amministrazione di Global Witness, un gruppo che si batte contro gli abusi dei diritti umani da parte dei governi e delle imprese minerarie che fanno il bello e cattivo tempo nei paesi in via di sviluppo e nelle Americhe. Nel 2015, quindi quattro anni dopo la lite con Jonathan, il padre gli offre un ruolo a tempo pieno accanto al suo consigliere di lunga data Michael Vachon, per fargli affinare le competenze politiche oltre che la capacità di sostenere discorsi e presentarsi in pubblico. E’ il suo apprendistato e si comincia a capire che sta imparando a diventare il numero due della fondazione. Le elezioni del 2016 e la vittoria di Trump sono anche per lui uno spartiacque. Temendo che il Congresso metta sotto inchiesta la Open Society Foundations, molti suggeriscono di abbassare i toni e nuotare in apnea. Invece Alex incita i colleghi a spingere ancor più avanti il loro lavoro. La Osf aumenta l’impegno finanziario in America latina fino a portarlo da 12 a 60 milioni di dollari, sostiene in Colombia gli accordi di pace e, negli Stati Uniti, collabora con la deputata democratica Stacey Abrams, avvocato e attivista, per migliorare la partecipazione elettorale nel sud.
Anche se George Soros è il bersaglio di tutte le possibili leghe antisemite, la sua fondazione non si è distinta eccessivamente nel sostegno alla causa ebraica. Non osservante, il padre non ha mai celebrato le festività, nemmeno le più importanti come la Pasqua e il capodanno civile, il Rosh Hashanah (quest’anno è caduto proprio ieri 15 settembre). Il figlio al contrario ha voluto riaffermare la propria identità e segue il calendario religioso. Focalizzandosi sulla politica interna statunitense più di quanto non faccia George, aiuta in particolare i Democratici a conquistare consensi tra gli elettori latinoamericani decisivi negli equilibri dei singoli stati e del Congresso.
Alex non è allineato con la sinistra radical, anzi su temi cruciali come la libertà di parola è senza esitazioni per il primo emendamento: niente censure, semmai battaglia culturale, scontro aperto nella società aperta. Insiste nell’affinare il messaggio dei Democrats: “Bisogna essere più patriottici e più inclusivi”, dice e aggiunge: “Solo perché uno vota Trump non significa che sia razzista o perduto alla democrazia”. Il conflitto di idee, di interessi, di linee politiche va affrontato liberamente, con fermezza, senza pregiudizi. Più filosofo, più ebreo osservante, vuoi vedere che Alex Soros è anche più liberale? Può darsi, ma la vera domanda è se finirà per consumare quei 25 miliardi di dollari in 25 miliardi di buone cause. Il dubbio è legittimo e per noi italiani è ancor più difficile capire come fanno a stare insieme fondazioni tipo Open Society e fondi speculativi tipo Quantum. Il modello americano lo consente, non è ipocrisia, non è un lavacro etico, è una questione culturale e religiosa persino, ha a che fare con il calvinismo, con l’etica protestante e lo spirito del capitalismo. Senza perdersi in speculazioni, il vecchio Soros ha cercato l’antidoto. Una volta disse che non avrebbe mai messo tutti i propri affari nelle mani dei figli, perché c’erano cose che potevano essere capite e gestite meglio da specialisti, da professionisti che lavorano per far soldi. Finché vivrà, sarà sempre lui il re di denari, poi toccherà a loro, sotto l’occhio vigile e la mente aperta di Alex.