L'idea
Stato e banche: come dimenticare gli extraprofitti senza perdite per l'erario
La questione da affrontare e risolvere è come garantire al fisco il gettito, su cui lo stesso Mef aveva fatto conto, senza dar luogo agli effetti negativi della norma attuale segnalati da tanti
Che la tassazione dei cosiddetti extraprofitti bancari fosse – per come era stata formulata – una discreta sciocchezza era noto (del resto, come già segnalato, bastava domandarsi chi l’avesse suggerita per primo per capirlo). Lo abbiamo scritto su queste colonne e lo ha chiarito, recentemente, la Banca centrale europea. Ed è inutile, a questo punto, tornare sui diversi motivi alla base di questa valutazione. Guardando in avanti, la questione da affrontare e risolvere è, a questo punto, soprattutto una: come garantire all’erario il gettito su cui lo stesso erario aveva fatto conto senza dar luogo agli effetti negativi della norma attuale segnalati da tanti. Effetti negativi che derivano – non me ne vogliano gli interessati - dalla presunzione di poter saltare a piè pari la conoscenza del comparto bancario e dei suoi bilanci nel momento in cui si disegnava una imposta per lo stesso.
Com’era prevedibile, non è mancato chi è corso a invocare un concetto rispetto al quale la Corte costituzionale ha già dimostrato di essere sensibile e cioè il cosiddetto “contributo di solidarietà”. Una versione edulcorata e buonista dell’idea di tassazione degli extraprofitti (qualunque cosa si intenda con questo termine): non si puniscono più i cattivi ma si chiede loro di fare i buoni. Forse costituzionalmente accettabile e anche facilmente vendibile, ma – tanto per cambiare – figlia dell’idea che basta pentirsi per poter continuare a peccare.
E invece non si comprende perché lo stato non ricordi a tutti con nettezza e senza margini di ambiguità quella che è la verità: la collettività è intervenuta a sostegno del comparto bancario (e dunque dei suoi azionisti) ripetutamente e massicciamente negli ultimi tempi. Liberandolo dal fardello dei crediti deteriorati attraverso le garanzie sulla cartolarizzazione delle sofferenze (Gacs), favorendo i processi di fusione e acquisizione anche attraverso l’uso dello strumento fiscale (trasformando le attività per imposte anticipate in crediti d’imposta), consentendo un rapporto più disteso con la clientela attraverso le moratorie bancarie, permettendo una crescita significativa degli impieghi (in tempi di crescente divaricazione fra tassi attivi e passivi) attraverso la concessione di garanzie statali. Tutti provvedimenti, indubbiamente, contraddistinti dalla volontà di tutelare interessi collettivi ma non privi di positive ricadute sugli specifici interessi del comparto. Non ci sarebbe nulla di strano se lo stato chiedesse a questo punto, al comparto bancario, superate le emergenze, di fare la sua parte e di farsi carico di parte degli oneri che negli anni a venire verranno addossati ai contribuenti a seguito dei citati provvedimenti. E di farsene carico in misura direttamente proporzionale all’uso fatto degli strumenti citati.
Abbiamo già ricordato che nel bilancio dello stato sono previsti, fra il 2023 ed il 2027, circa 50 miliardi a fronte delle potenziali escussioni delle garanzie statali offerte negli ultimi anni, spalmati in maniera solo relativamente omogenea nel corso del quinquennio. Sarebbe del tutto ragionevole prevedere una compartecipazione non inferiore al 10 per cento del comparto bancario agli esborsi citati nel corso del quinquennio 2023-2027 e negli anni successivi (se per ipotesi dovesse proseguire il ricorso alle garanzie statali, anche se fin da ora non sembrano esservene i presupposti). Basterebbe ipotizzare un prelievo commisurato alle garanzie escusse di volta in volta. Per lo stato si darebbe luogo a un gettito non one-off ma ripetuto nel tempo (e per un congruo numero di anni, con tutto quel che segue in termini di utilizzabilità dei fondi in termini della prossima manovra finanziaria) e di dimensioni facilmente assimilabili e con ogni probabilità superiore a quello già oggi ipotizzato ma legato non già, genericamente e irragionevolmente, alle politiche di bilancio degli istituti di credito bensì al loro ricorso alle risorse del contribuente per rimanere sul mercato (e, cosa non irrilevante, tutelare i propri azionisti). Per le banche, il prelievo opererebbe su bilanci non ancora chiusi e consentirebbe per tempo gli opportuni accantonamenti.
Sarebbe una soluzione capace di penalizzare gli istituti meno virtuosi che hanno fatto ricorso in maniera più ampia al sostegno pubblico e premiare quelli che hanno saputo, invece, contare soprattutto sulle proprie forze. Sarebbe una soluzione assai più dignitosa e giustificata di quella che sembrerebbe essere stata concordata in sede parlamentare che consisterebbe nel lasciare agli istituti di credito la possibilità di destinare l’importo del prelievo all’erario o al patrimonio degli istituti stessi. Una soluzione che riesce nella impresa pressoché impossibile di dimostrare l’infondatezza del prelievo lasciandone inalterati gli aspetti negativi. Una politica autorevole e forte non dovrebbe avere difficoltà a riconoscere di aver preso una strada sbagliata e a modificare la rotta per perseguire più efficacemente l’obbiettivo iniziale. La passata legislatura è stata costellata da provvedimenti puramente demagogici che – come oggi si vede – è necessario smontare per evitare che producano ulteriori danni. Siamo certi che il presidente del Consiglio in carica non voglia nemmeno lontanamente essere avvicinata a quegli esempi.
tra debito e crescita