La proposta
Il disastro dell'ex Ilva è alla luce del sole ma le scorciatoie di stato sono dannose
Dopo undici anni di agonia dall'inizio dei sequestri giudiziali, l’azienda muore di asfissia. Il fallimento delle intese grilline dovrebbe portare a esperire le strade legittime per disimpegnare Mittal e aprire a chi voglia davvero investire su rilancio e decarbonizzazione
Dopo undici anni di agonia dall'inizio dei sequestri giudiziali, l’ex Ilva di Taranto continua a languire: in continua perdita di produzione, crescente ritardo sul riapprontamento di Afo5, sempre più grave carenza di fondi da investire per proseguire sulla decarbonizzazione, e per approvvigionarsi di materie prime non solo basandosi sulla propria cassa. Ha ragione Franco Bernabè, che qualche giorno fa ha deciso – lui che di solito è così alieno dall’alzare la voce – di lanciare un allarme generale: così non si va avanti, l’azienda muore di asfissia e inedia. E’ la tragica realtà, i sindacati hanno ragione anch’essi a essersi stufati di parole e promesse. L’Italia è l’unico paese avanzato ad aver lasciato che una grande acciaieria a ciclo integrato a caldo subisse espropri e commissariamenti giudiziali dei suoi impianti e dei suoi semilavorati, nonché dei conti e patrimoni aziendali e di quelli di ogni suo ex socio privato, con governi fermati dalle impugnative giudiziarie tutte le volte che hanno provato a contenere i fermi giudiziali. L’esito è non aver saputo individuare in così tanti anni una strada solida per fare punto a capo, e non perdere acciaio da altoforni.
Ricordate a inizio 2019 Di Maio annunciare trionfante in tv che in pochi mesi i 5S avevano risolto i guai Ilva, loro che in campagna elettorale volevano annullare la gara 2018 aggiudicata ad Arcelor Mittal dicendo che era nulla? Ricordate Patuanelli che beffardo annunciava mai e poi mai i privati avrebbero potuto giovarsi dello scudo penale nei lavori di risanamento che era invece concesso ai commissari pubblici? Quegli stessi 5S che finirono per sottoscrivere poi un accordo con Mittal a lungo rimasto riservato, e che si è rivelato assai meno stringente di quello cui lavorò nel 2018 Calenda per inchiodarli ai loro investimenti? Rammentate il ministro Giorgetti che nel 2021 annunciava felice che tutto si sarebbe risolto con il passaggio entro maggio 2022 al 60% dello Stato attraverso il braccio di Invitalia, che avrebbe assunto la gestione pubblica dell’ex Ilva scalzando Mittal? Vi sovviene che tutto è poi finito rinviando a maggio 2024 tale svolta? Con migliaia di cassintegrati, ad onta delle promesse 5S “tutti riassunti”? Avete presente che con l’attuale governo non si è mai capito davvero se tale svolta era condivisa? A febbraio scorso il governo emano un singolare decreto ad ziendam che in realtà si applicava solo all’ex Ilva, per consentire a Invitalia di chiedere il commissariamento anche della società che ha l’impianto in gestione, liquidando Mittal per “inadeguatezza di gestione.
Decreto a forte sospetto di incostituzionalità ma che comunque apparve come l’intenzione di anticipare il passaggio alla gestione pubblica, senza aspettare il 2024. E invece no, perché nell’estate il presidente del Consiglio assume il dossier a palazzo Chigi, constatando che a Taranto si va di male in peggio malgrado i 680 milioni intanto erogati dallo stato. E ristorna la vicenda ex Ilva dal Mimit al ministro Fitto. Ora ci viene detto che l’alternativa sarebbe tra la nazionalizzazione cara al Mimit o la conferma della gestione Arcelor-Mittal, cara a Fitto. Malgrado in questi anni, dalle scelte fatte nei suoi altri impianti in Ue, Mittal abbia di fatto dimostrato nei fatti di non voler investire il necessario a Taranto. Ebbene no, l’alternativa non è quella. Il fallimento delle intese a firma 5S dovrebbe portare una politica seria a esperire le strade legittime per disimpegnare Mittal, e aprire una gara per cedere Acciaierie d'Italia a un gruppo o una cordata di privati del settore, interessati davvero a investire per il rilancio del ciclo integrato a caldo e l’avanzamento della decarbonizzazione. Difendendo l’acciaio da altoforni, non solo quello da preridotto e forni elettrici alimentati, in un domani ancora lontano, a idrogeno e nel frattempo a gas.
Certo, sarebbe una sincera ammissione che lo stato ha fallito in ogni sua veste, in questa vicenda. E che oggi certo non ha 7-8-10 miliardi da investire a Taranto. E’ un mestiere che devono fare acciaieri provetti, non manager pubblici. Altrimenti è come dare ragione ad Emiliano, cioè assistere allo spegnimento progressivo di ogni futuro produttivo dell’ex Ilva. Il cui lungo disastro è decisivo per il declino della produzione di acciaio in Italia. Il picco massimo di produzione nazionale fu toccato nel 2006 con oltre 31,6 milioni di tonnellate. Erano ancora 28,7 milioni nel 2011. Da quell’anno, l’agonia Ilva ci ha fatto decadere fino ai 21,6 milioni di tonnellate del 2022. Un vero orrore di inefficienza istituzionale e improntitudine politica, a scapito del sistema produttivo costretto a importare dall’estero, non bastasse il sovrapprezzo della nostra bolletta energetica rispetto a quella pagata dai concorrenti tedeschi e francesi.