L'analisi
Puntare sull'acciaio buono. Intervista al presidente di Federacciai
L’Italia punta a diventare campione mondiale di acciaio green. Per farlo, Antonio Gozzi ci spiega perché l’intervento pubblico non va demonizzato. Lezioni dalla crisi di ArcelorMittal
C’è l’acciaio nero, quello considerato brutto, sporco e cattivo, quello che non si dovrebbe produrre più, basta comprarlo in Cina, in India, in Indonesia. E c’è l’acciaio verde quello dei forni elettrici alimentati con energia pulita, l’unico che sarebbe degno di un paese ecologicamente corretto. Due mondi a lungo paralleli e oggi sempre più divergenti. Legato il primo da mille laccioli, intrappolato da ideologi e magistrati, attivisti e sindacati, partiti e governi, vive ancora grazie ai sostegni pubblici perché su di lui la grande finanza non scommette nemmeno un euro. Solido il secondo, sostenuto da imprenditori per i quali non vale il vecchio detto “famiglia ricca, azienda povera”, capitalisti che investono i loro capitali, rischiano e hanno impedito che la siderurgia italiana finisse tra i residui di un’èra superata. Due mondi diversi, spesso opposti (e lo sono stati a lungo), ma che hanno bisogno l’uno dell’altro. Antonio Gozzi vuole sfatare un luogo comune: quella lega di ferro e carbone che ha alimentato tre rivoluzioni economiche e ora attraversa una quarta, non è affatto un residuo del passato. Bella forza, lui presiede la Federacciai che associa i protagonisti del settore (un secondo mandato dopo sei anni durissimi dal 2012 al 2018), ed è al vertice del gruppo Duferco, fondato da Bruno Bolfo, un manager che aveva lasciato l’Italsider, tra i maggiori produttori di travi e di energia, leader nel commercio dell’acciaio, con un giro d’affari globale di 43 miliardi di euro. Ma Gozzi, ligure nato a Chiavari nel 1954, detesta retorica, piagnistei, catastrofismi e ama navigare controcorrente. Nell’incontro con il Foglio ribadisce il messaggio lanciato all’assemblea dell’organizzazione imprenditoriale: “Campioni europei dell’acciaio verde lo siamo già, campioni mondiali possiamo diventarlo entro il 2030. I siderurgici privati sono i più green d’Europa, l’80 per cento dell’acciaio è decarbonizzato, partendo da questa premessa aspiriamo a diventare i primi al mondo”. Progetto vasto, realizzabile solo a condizione che si compiano scelte europee e nazionali adeguate. Nel mirino ci sono innanzitutto “i sacerdoti di Bruxelles” prigionieri di “un ambientalismo estremo”, ma c’è anche il complesso mediatico-politico italiano vittima di un pregiudizio anti industriale, “un’ubriacatura d’immaterialità, l’illusione di poter vivere solo di servizi”.
“Campioni europei dell’acciaio verde lo siamo già, campioni mondiali possiamo diventarlo entro il 2030”
Non solo Taranto, dunque, non solo Piombino, non solo l’eredità complicata dell’acciaio di stato, non solo sprechi, errori, cecità ideologiche, non solo crisi, anche se è fondamentale risolvere il pasticcio della ex Ilva rinominata Acciaierie d’Italia. Il centro siderurgico è ancora strategico, i forni elettrici possono fare quasi tutto, ma le lamiere per le automobili hanno bisogno dei forni a caldo, delle colate di fuoco, di temperature altissime per fondere i minerali. Il presidente non vuole schivare gli scogli dell’attualità. Ieri l’incontro con il governo, oggi lo sciopero, il presidente Franco Bernabè ha rimesso il suo mandato nelle mani del governo il quale prende tempo e spera in un accordo in extremis. Decisivo è lo stanziamento di altri quattrini da parte dello stato, circa 250 milioni di euro da stanziare per la decarbonizzazione. Quanto è costata già la crisi dell’Ilva ai contribuenti? Una stima provvisoria arriva a dodici miliardi di euro in dieci anni e non è finita, un pozzo senza fondo. Ormai siamo al punto di non ritorno. “Se il gruppo siderurgico più grande del mondo (ArcelorMittal, ndr), mettendo soldi e management, s’impegna a rilanciare l’asset industriale più importante del paese non si può pensare a soluzione migliore. Se non è così bisogna pensare ad altro”, ha detto il presidente all’assemblea della Federacciai. Ma che cos’altro ancora si può fare? Gozzi ricorda di non essere mai stato contrario ideologicamente a una presenza dello stato nel capitale della società, questa presenza va considerata “transitoria, ma necessaria” con l’obiettivo di “accompagnare il processo di risanamento e rilancio di questo asset strategico per poi rimetterlo sul mercato”. E’ arrivato il momento di “uscire dalle incertezze, definire un piano condiviso tra i soci con una chiara assunzione di responsabilità da parte di ciascuno che deve avere un riscontro nella governance dell’azienda. Ho fatto molti viaggi a Taranto negli ultimi mesi – racconta – Il piano e le opere di ambientalizzazione sono stati praticamente realizzati e non si capisce per quale ragione la magistratura non dissequestri gli impianti. Il clima politico è migliorato. Ed è possibile oltre che giusto applicare il modello ibrido punto di riferimento in Europa, con una parte della produzione da altoforno applicando tecnologie come la carbon capture e l’idrogeno, sostituendo una quota della produzione con forni elettrici alimentati da impianti Dri (preridotto, semilavorato contenente ferro, ndr) utilizzatori almeno in parte di idrogeno”. Un anno fa è stata creata da Invitalia la prima società per produrre a Taranto con l’obiettivo di decarbonizzare l’acciaio; si era raggiunto un accordo di massima, ma è ancora in alto mare. Il tempo stringe e l’impianto deperisce; oggi produce tre milioni di tonnellate all’anno, anche se avrebbe la capacità di arrivare a dieci, è a corto di circolante, non vengono pagati i fornitori di energia elettrica, le navi attendono in porto cariche di materiale, gli investimenti languono e la fabbrica ha un deficit più che decennale di flussi di cassa. Lo stabilimento può riprendersi se si rimette in funzione l’altoforno numero 5, qui però si gioca una partita complessa e talvolta oscura che vede attorno allo stesso tavolo troppi protagonisti ora in conflitto ora in combutta tra loro: partiti, poteri locali, magistrati, ambientalisti, industriali. E soprattutto non si capisce che parte stia interpretando ArcelorMittal. Gozzi non ha risparmiato critiche all’azionista di maggioranza, che pure è membro della Federacciai: “Londra deve chiarire una volta per tutte le sue reali intenzioni. A tratti ha dato segni di disimpegno, togliendo le garanzie finanziarie necessarie a sostenere il circolante, ritirando manager inviati dall’estero per rilanciare la fabbrica, dividendo l’organizzazione commerciale della ex Ilva da quella della casa madre”.
La presenza dello stato nel capitale di ArcelorMittal va considerata una soluzione “transitoria, ma necessaria”
Circolano voci e illazioni. La multinazionale non ha voglia di investire ancora in Europa, compresa la Francia da dove ha cominciato la sua penetrazione. L’Asia e l’America sono ormai i suoi mercati. In particolare, Lakshmi Mittal, il fondatore che ha lasciato al figlio Aditya la guida operativa, ha deciso di tornare da protagonista in patria dove è sempre stato fuori dal club, un apolide, considerato non indiano, un maverick come i cowboys chiamavo il capo fuori dal gregge. Con una popolazione ormai superiore a quella cinese, l’India produce 150 milioni di tonnellate all’anno, come l’Europa, ma nove volte meno della Cina e non ha i vincoli ecologici imposti da Bruxelles. Gli impianti nel Vecchio continente verranno presidiati per bloccare concorrenti molesti, ma solo finché i governi saranno disposti a tirare fuori quattrini e non saranno maturate alternative più profittevoli. In Italia durante il gabinetto gialloverde l’allora ministro dello Sviluppo Luigi Di Maio ha creato una sorta di trappola per qualsiasi governo: liquidare Mittal costerebbe mezzo miliardo di euro ai contribuenti. Follie. Ma la voce più incredibile che si sente in ambienti diversi anzi opposti come la Borsa e i sindacati riguarda un fantomatico patto di sindacato in base al quale ArcelorMittal avrebbe in mano il potere ultimo anche se riducesse al minimo la sua quota azionaria. In questo modo anche l’ipotetico ribaltone statalista sarebbe impossibile. Nessuno ha visto un tale accordo occulto e forse è solo altro veleno nei pozzi già traboccanti di pozioni malefiche. Le cose non vanno bene nemmeno a Piombino dove si producono rotaie e il gruppo indiano Jindal è sempre lì lì per mollare. Dopo traversie continue, della vecchia Italsider solo Terni che fa acciai speciali sembra uscita dai guai grazie all’arrivo di Giovanni Arvedi, decano degli industriali privati. E questo ci riporta a quel folto gruppo di imprenditori che ha rilanciato l’altra siderurgia italiana.
“Londra deve chiarire le sue intenzioni. A tratti ha dato segni di disimpegno, togliendo garanzie finanziarie necessarie”
Sia l’acciaio verde sia l’acciaio nero oggi debbono affrontare sfide comuni. In Europa vengono prodotte 90 milioni di tonnellate da altoforno e 60 milioni da forno elettrico. Circa metà delle prime sono destinate a crollare per ragioni di costo: per convertire un milione di tonnellate occorre un miliardo di euro, non ci sono incentivi europei, quindi l’onere dovrebbe cadere solo sulle imprese. A Bruxelles domina un atteggiamento ideologico ancora legato a un globalismo d’antan, secondo il quale la siderurgia costa e inquina troppo, quindi meglio comprare acciaio prodotto nei paesi in via di sviluppo, Indonesia, Cina, innanzitutto. Salvo che oggi al teorema ricardiano dei costi comparati s’aggiunge un altro fattore: la sicurezza. Diventare dipendente da produttori inaffidabili politicamente e militarmente è il più pesante dei costi. Il cambio di paradigma avvenuto con la pandemia e l’invasione russa dell’Ucraina sembra non aver scalfito le adamantine ideologie di Margrethe Vestager e dei suoi consiglieri. Gozzi parla di tre fattori perversi: “l’iperliberismo mercatista”, “la religione neopagana” degli ecologisti radicali, il conformismo della finanza e della politica. E’ questo il clima che si respira a Bruxelles, ma “l’Europa senza i suoi sistemi industriali di base è destinata a essere solo un grande mercato per lo più invaso da chi certo non può essere considerato un amico”. Qual è l’alternativa, il neoprotezionismo? “Siamo tutti uomini di mercato”, replica Gozzi, “e sappiamo che dazi e balzelli finiscono solo per ridurre il benessere, tuttavia gli iperliberisti non hanno saputo gestire la globalizzazione, non hanno dato risposta, non hanno saputo proteggere i ceti sociali più deboli. Adesso ne paghiamo le conseguenze”. Il populismo si è alimentato così. La Fiom di Brescia, roccaforte dei siderurgici privati, ha fatto un sondaggio tra i suoi iscritti e ha visto che il 75 per cento oggi vota Lega. “Noi imprenditori abbiamo le nostre responsabilità, non abbiamo fatto abbastanza per affermare una cultura dell’industria, anche noi abbiamo seguito il mainstream”.
“Confidiamo che il nuovo Europarlamento e la nuova Commissione comprendano la necessità di difendere l’industria
Nel definire la strategia energetica dell’Unione europea gli industriali hanno ceduto il passo agli eurocrati e si sono mossi, così come i governi nazionali, in ordine sparso. Oggi si è creata una sorta di divisione competitiva del lavoro. I francesi sono leader nel nucleare e manterranno il primato anche in quello di nuova generazione. I tedeschi hanno scommesso sul vento del Mare del nord e sull’idrogeno ottenendo finanziamenti cospicui (su 750 miliardi di euro ne hanno presi oltre la metà, i francesi il 25 per cento, gli italiani il 7). Gli spagnoli hanno il mix ottimale con 5 centrali nucleari, 15 a turbogas, sette rigassificatori, due metanodotti con l’Algeria, campi solari nel plateau al centro del paese. E l’Italia? Siamo in mezzo a un Mediterraneo gonfio di gas, i giacimenti scoperti dall’Eni nel Levante sono enormi, l’Algeria passerà da 110 miliardi a 160 miliardi di metri cubi in cinque anni. L’Italia è ben strutturata con cinque gasdotti e cinque rigassificatori, il metano dunque è la fonte ideale per gestire la transizione, sottolinea Gozzi. L’idrogeno pone problemi anche tecnologici complessi, dal trasporto allo stoccaggio fino all’enorme consumo di acqua, bene scarso e prezioso, oltre che di energia. Il cosiddetto idrogeno verde richiede vasti impianti fotovoltaici impossibili da installare su un territorio come quello italiano. “Se vogliamo essere completamente green nel 2030, abbiamo bisogno di almeno 5-6 mila ore l’anno di energia di base completamente decarbonizzata – spiega Gozzi – Esistono solo due tecnologie capaci di soddisfare questa esigenza: il turbogas con l’utilizzo dei sistemi che catturano la CO2 e il nucleare di nuova generazione”. Per quest’ultimo ci vorrà tempo. La prima soluzione è a portata di mano, ma è una corsa a ostacoli. L’Europa non ha un fondo per sostenere la riconversione delle imprese che più generano anidride carbonica. In Italia è sempre all’opera il partito variegato e trasversale del No. Decarbonizzare, così, diventa un mantra tanto universale quanto generico e vuoto. Gozzi pratica il pessimismo dell’intelligenza, ma non abbandona l’ottimismo della volontà. E manda un messaggio anche in vista delle prossime elezioni europee: “Confidiamo che il nuovo Parlamento e la nuova Commissione prendano atto degli errori commessi, correggano il tiro, comprendano la necessità di difendere l’industria europea e sostenerla come un bene comune”. L’Italia è il secondo produttore di acciaio nell’Unione europea e il primo per produzione da forno elettrico. “Diventare campioni del mondo è una sfida così grande che da soli non ce la facciamo, abbiamo bisogno del sostegno e del supporto dello stato, è una operazione di sistema come si addice a un grande paese industriale”. Sempre se l’Italia vuole davvero restare nel club dei primi dieci al mondo.