L'analisi
Nelle pieghe della Nadef, un esercizio di equilibrismo e ipocrisia
Nel documento finanziario di solito costruito per essere gradito alla Commissione europea e ai mercati, emergono gli azzardi e le fragilità del bilancio pubblico nei prossimi anni. Inflazione, Superbonus, prudenza le parole chiave
La Nota di aggiornamento al Def (Nadef) è un genere letterario. Consiste nel tentativo di rappresentare la politica economica del governo con un linguaggio gradito alla Commissione europea e ai mercati. Ciò implica l’esigenza di descrivere (senza mentire) cosa si vuole fare, inserendolo però in un quadro rassicurante in cui si noti molto ciò che piace e non si noti troppo che farebbe alzare il sopracciglio. Inoltre, la Nadef serva a far intuire a Bruxelles che si è pienamente consapevoli dei rischi e dei vincoli. Si tratta, quindi, di un esercizio di equilibrismo e al tempo stesso di ipocrisia. Il governo Meloni, nella sua prima vera Nadef, dimostra di essere diventato rapidamente padrone di quest’arte. Ciò, tuttavia, non impedisce di vedere gli azzardi e le fragilità che segneranno la turbolenta navigazione del bilancio pubblico nei prossimi anni.
La Nadef 2023 ruota attorno a tre parole: inflazione, Superbonus e prudenza. L’inflazione è, chiaramente, la principale preoccupazione di Via XX Settembre. “La situazione economica e di finanza pubblica – scrive il ministro Giancarlo Giorgetti – [è] più delicata di quanto previsto in primavera”. Egli appare pienamente consapevole che il beneficio dell’inflazione per i conti pubblici – la riduzione del costo reale del servizio al debito – è effimero e di breve termine. Sono molto più rilevanti gli aspetti negativi: l’inevitabile incremento del costo delle nuove emissioni di titoli di stato, la maggiore spesa per l’indicizzazione di alcune prestazioni sociali, la restrizione del credito e l’erosione del potere d’acquisto delle famiglie, che obbliga a prorogare almeno alcune delle misure eccezionali degli scorsi anni. In questo quadro, la Nadef rivela quello che è ovvio ma che viene quasi quotidianamente contraddetto dalle parole dei ministri e dei membri della maggioranza: l’unica strategia possibile contro l’inflazione consiste nell’aumento dei tassi, come sta facendo la Banca centrale europea. Infatti, l’Eurotower ha “accentuato l’intonazione restrittiva” della sua politica monetaria proprio “per riportare la dinamica dei prezzi in linea con i propri obiettivi di medio termine”. Il raffreddamento dell’economia è un male necessario, perché lasciare che sia l’inflazione a galoppare avrebbe conseguenze ben peggiori.
Questa consapevolezza emerge bene dal box dedicato alle cause dell’inflazione e, in particolare, al tanto discusso ruolo dell’incremento dei profitti delle imprese. Con poche eccezioni, queste hanno certamente difeso i propri margini nel corso del 2023, ma lo hanno fatto, da un lato, per ricuperare l’impatto delle perdite nel periodo precedente e, dall’altro, per anticipare gli effetti degli inevitabili incrementi nel costo del lavoro. Contemporaneamente, il governo manda messaggi tranquillizzanti sui corsi dell’energia, escludendo che si possa tornare a vedere picchi come quelli del 2022. La ragione di questo cambiamento è interamente imputata “alla riduzione dei consumi e alla diversificazione delle fonti di approvvigionamento”. Il price cap sul gas, tanto enfatizzato nella comunicazione del governo (attuale e precedente), non viene neppure citato.
Se l’inflazione costituisce il problema da affrontare, il Superbonus (citato ben ventisei volte) costituisce invece il più grave vincolo all’azione del governo. Il suo enorme impatto sulla finanza pubblica ha privato il governo dello spazio fiscale necessario a mettere in atto le promesse elettorali (in particolare in campo fiscale). C’è perfino una velata autocritica: “Le modifiche normative introdotte nell’anno in corso, che hanno eliminato in via generale la trasferibilità e lo sconto in fattura dal 18 febbraio 2023, hanno previsto una serie di eccezioni per le spese sostenute nel 2023, per le quali continuano ad applicarsi le condizioni di utilizzo previgenti relative alla trasferibilità del credito e allo sconto in fattura. Le evidenze ad oggi disponibili segnalano che le spese sostenute nell’anno in corso sono in larghissima misura riferibili alle citate deroghe, in relazione alle spese già avviate o approvate prima del blocco delle cessioni”. In sostanza, pur avendo fatto la cosa giusta mettendo uno stop al Superbonus, l’esecutivo riconosce che sono state lasciate troppe scappatoie e queste hanno indebolito l’efficacia all’argine che si è tentato di erigere. Pertanto, nei conti pubblici non c’è spazio per alcuna fantasia.
Anzi: alcune tendenze, specialmente in ambito previdenziale, vanno a loro volta imbrigliate. E qui, tra le righe, si trova un’altra ammissione piuttosto sorprendente: la riforma Dini e soprattutto la riforma Fornero “elevando i requisiti di accesso per il pensionamento di vecchiaia e anticipato, hanno migliorato in modo significativo la sostenibilità del sistema pensionistico nel medio-lungo periodo, garantendo una maggiore equità tra le generazioni”. Sfortunatamente, si legge nella Nadef, le agevolazioni e i prepensionamenti introdotti a partire dal 2019, tra cui Quota 100 e Quota 103, hanno determinato un sensibile incremento della spesa.
La politica economica del governo, dunque, si cala all’interno di questi vincoli e ruota attorno a un concetto ripetuto quasi ossessivamente: “La manovra di bilancio per il prossimo triennio 2024-2026 continuerà ad essere orientata a princìpi di prudenza, cercando il giusto equilibrio tra l’obiettivo di fornire il sostegno necessario all’economia nell’immediato attraverso misure mirate, e quello di assicurare sia il rientro del deficit al di sotto della soglia del 3 per cento del pil, sia un percorso di riduzione credibile e duraturo del rapporto debito/pil”. Il governo tiene conto del rallentamento dell’economia e, conseguentemente, taglia la previsione di crescita del pil a legislazione vigente dall’1,5 all’1,0 per cento (addirittura 0,8 per cento se si guarda al tendenziale). E’ qui che si inserisce la virtù della prudenza: come fare a sostenere la crescita, senza scassare i conti, e contemporaneamente incorporando la maggiore inflazione? L’esecutivo risponde nel più classico dei modi: aumentando la spesa senza farlo apparire troppo. Poiché i margini sono scarsi, ciò si traduce in poco più della conferma delle misure esistenti in campo fiscale, la più importante delle quali è la decontribuzione per i lavoratori a medio-basso reddito. Gli effetti sul bilancio di questa manovra, in sé cauta e persino apprezzabile, sono tutt’altro che secondari: nel 2024 il deficit cresce dal 3,6 per cento dello scenario tendenziale al 4,3 per cento di quello programmatico, nel 2025 dal 3,4 per cento al 3,6 per cento, e solo nel 2025 scende al di sotto del 3 per cento (2,9 per cento contro 3,1 per cento). Si legge: “coerentemente con questo obiettivo, la politica di bilancio diventerà lievemente restrittiva nel 2026 rispetto allo scenario tendenziale, con il conseguimento di un miglioramento più sostanzioso del saldo primario in tale anno”. Giova ricordare che il 2026 sarà l’ultimo anno della legislatura: è davvero pensabile che la disciplina di bilancio si irrigidisca proprio allora?
C’è di più: la previsione della Nadef si regge su alcune ipotesi tutt’altro che ovvie. La prima riguarda l’impatto della politica economica sulla crescita, che è prevista all’1,2 per cento nel 2024 (0,2 punti sopra lo scenario a politiche invariate e 0,4 sopra quello tendenziale). La seconda riguarda il miglioramento dei saldi attraverso “misure di controllo della spesa, revisione dei sussidi e riduzione del tax gap”. Di queste promesse, l’unica con qualche fondamento è in verità l’ultima, visto che da tempo l’utilizzo più efficace dei dati a disposizione dell’amministrazione tributaria ha consentito di combattere efficacemente molte condotte illecite (per esempio nel settore dei carburanti). Infine, il governo si impegna a ricavare un gettito pari a circa un punto di pil attraverso un non meglio precisato piano di privatizzazioni (si veda Luciano Capone sul Foglio del 29 settembre). Se questo non vedrà la luce, il debito è destinato a salire: finché non sarà chiaro quali beni o partecipazioni societarie Via XX Settembre vuole cedere, la sensazione sarà che si tratta di vuote grida. Tanto più che la stessa Nadef aggiunge l’intenzione di “acquisire partecipazioni strategiche in settori chiave per la modernizzazione e digitalizzazione della nostra economia, quali le reti di telecomunicazione”. La maggiore generosità dei dettagli chiarisce bene quale, tra il piano di privatizzazioni e quello di nazionalizzazioni, abbia più probabilità di essere realizzato. Ne segue che il debito, nella migliore delle ipotesi, sarà stabilizzato: e questo, in uno scenario in cui i tassi zero sono ormai un ricordo, implica l’esplosione della spesa per interessi, che crescerà dal 3,8 per cento del pil nel 2023 al 4,6 per cento nel 2026.
Non stupisce, allora, che i mercati manifestino nervosismo: anche di questo il Mef è del tutto cosciente, tanto che la Nadef contiene alcuni scenari piuttosto preoccupanti sulla traiettoria esplosiva che potrebbe prendere il rapporto debito/pil nel caso in cui le tensioni dovessero inasprirsi. Ancora una volta, il governo sa (e mette nero su bianco) che nel breve termine l’andamento economico dipende perlopiù da variabili esogene, come il prezzo del petrolio, ma nel lungo l’aspetto da monitorare con più attenzione e timore è lo spread e il livello assoluto dei tassi di interesse sui nostri Btp. Oltre tutto, la credibilità del percorso di riduzione del debito (e, in generale, del rilancio della crescita) sta tutta nell’attuazione del Pnrr e nell’auspicio che produca effettivamente quell’effetto sviluppista gli viene attribuito. Si tratta di un ulteriore duplice azzardo, anche alla luce dei ritardi, prevedibili e inevitabili, nell’esecuzione degli investimenti e di quelli, altrettanto prevedibili ma evitabilissimi, nell’approvazione delle riforme.
La prudenza, insomma, è tanto ostentata quanto poco praticata, perfino prendendo la Nadef a valore facciale. Non basta che il documento di bilancio sembri prudente: deve anche esserlo.