conti pubblici
Segnali di ottimismo per l'Italia ma non c'entra nulla il Btp Valore
Il successo dei titoli obbligazionari emessi dallo stato è una buona notizia, ma è irrilevante rispetto ai grandi numeri del debito pubblico. Non sono i conti pubblici ma altri i fattori su cui l'economia italiana può aggrapparsi
La corsa al nuovo Btp Valore nel primo giorno di collocamento (ordini per oltre 4,7 miliardi) può essere interpretata come un segnale di fiducia verso il governo Meloni nel bel mezzo della tempesta che sta attraversando per via dei conti pubblici? Il ministro delle Infrastrutture, Matteo Salvini, pensa di sì, ma è evidente che confonde la fiducia degli italiani con quella dei mercati verso l’Italia che, invece, rappresenta la principale preoccupazione del ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, come lui stesso ammette. Gli italiani sono stati allettati da un’emissione di titoli di stato con rendimenti crescenti e che, per la prima volta, paga cedole ogni tre mesi invece che ogni sei e alla fine garantisce anche un premio fedeltà. Un buon investimento per chi ha liquidità parcheggiata e senza correre rischi se non quello, remoto per la verità, del fallimento dell’Italia (anche se una domanda bisognerebbe sempre porsela: ha senso puntare i propri risparmi su un paese che non cresce quanto il suo debito?). E non è escluso che l’emissione, per le sue caratteristiche che in questa fase lo rendono più conveniente rispetto ai Btp ordinari, possa ottenere un certo riscontro anche tra gli investitori istituzionali che potranno acquistare i titoli solo sul mercato secondario una volta che sarà terminato il collocamento al retail. Del resto, assicura Giorgetti, non c’è alcun segnale di declassamento in arrivo dalle agenzie di rating che dovranno pronunciarsi nelle prossime settimane (ben cinque).
Il vero problema dell’Italia, dal punto di vista della fiducia accordata da chi investe nel suo debito, è quello messo in evidenza dalla banca d’affari Morgan Stanley e cioè che da agosto del 2021 a inizio di quest’anno gli operatori non residenti, vale a dire i fondi esteri, hanno venduto circa 100 miliardi di Btp facendo scendere la percentuale di debito pubblico in loro possesso al 26 per cento rispetto all’oltre 40 per cento del 2011. Dunque, stando agli ultimi dati (Bankitalia), è vero che la percentuale di retail è salita al 10 per cento ad agosto, grazie anche alle diverse emissioni realizzate dall’esecutivo, ma il restante 90 per cento resta ancora nelle mano degli istituzionali. Di questa quota, come detto, i non residenti rappresentano appena un quarto mentre i tre quarti si dividono tra operatori residenti, che vuol dire banche e assicurazioni italiane, e un’istituzione come la Bce. Anzi, la Banca centrale europea è diventata dopo il Covid il principale acquirente di debito pubblico italiano. Questa composizione dovrà per forza cambiare col tempo perché la Bce si sta progressivamente disimpegnando dal debito sovrano europeo e il governo italiano si ritroverà prima o poi nelle condizioni di tornare a bussare alla porta dei poco amati investitori esteri. Questa è la realtà dei fatti.
In conclusione, se tanti cittadini comprano il Btp Valore è un segnale di fiducia che, però, è irrilevante rispetto ai grandi numeri del debito pubblico che ha bisogno di grandi acquirenti che in questo momento stanno valutando quanto le nuove proiezioni di deficit rispetto al pil (dal 3,7 per cento al 4,3 per cento per il 2024) possano rappresentare “un brusco cambiamento della strategia fiscale del governo Meloni” come teme Oxford Economics.
Insomma, se si vogliono cogliere elementi di ottimismo per l’Italia non è ai conti pubblici (che non tornano), né allo spread (in lieve discesa ieri ma proiettato verso i 200 punti base per fine secondo alcune banche d’affari) né alla Borsa (ieri in calo dell’1,4 per cento) che bisogna guardare: la principale novità della Nadef, comunque la si metta, è l’ammissione che il debito pubblico non scenderà e, stando alle ultime proiezioni del pil, il paese crescerà meno di quanto il governo aveva stimato in primavera. E questi, per i mercati, rappresentano segnali di allarme in un contesto economico di rallentamento. Ma è anche vero che ne esistono di positivi, fattori di sostegno su cui l’Italia può contare, che non hanno ancora dispiegato i loro effetti positivi: il calo dell’inflazione che farà aumentare i consumi, la prossima fine dei rialzi dei tassi Bce che allevierà la pressione sui rendimenti e l’impatto, anche parziale, del Pnrr sul pil dei prossimi anni. Senza contare la capacità dell’industria manifatturiera di rialzare la testa come dimostra l’indice Pmi che a settembre è salito a 46,8 punti dai 45,4 di agosto.