L'analisi

Il caso Magneti Marelli è un cortocircuito per la sinistra, i suoi giornali e mr Stellantis

Stefano Cingolani

Da Marchionne al fondo KKR passando per Landini: la crisi dello stabilimento di Crevalcore inizia da lontano. Una rassegna delle colpe 

Sia maledetta l’auto elettrica! Se la Magneti Marelli chiude lo stabilimento di Crevalcore la colpa è tutta della transizione energetica. Lo gridano a gran voce i sindacalisti della Fiom, lo sentenzia Maurizio Landini, lo sostengono anche i top manager dell’azienda, sia pur con intenti diversi. E’ davvero così? Eppure la prima Porsche totalmente elettrica, la Taycan, un oggettino da 100 mila euro minimo messo sul mercato nel 2019, montava componenti della Marelli. Allora dobbiamo biasimare la pandemia sulla quale viene ormai gettato ogni guaio, dalle baby gang alla violenza sessuale? Forse sarebbe meglio risalire a Sergio Marchionne; si ricorda ancora la sua battuta a Washington nel 2014: “Spero che non compriate la 500 elettrica perché ogni volta che ne vendo una perdo 400 dollari”. Nel frattempo Elon Musk ne perdeva molti di più, però la Tesla saliva ai vertici della borsa; oggi capitalizza  775 miliardi di dollari, la General Motors 45, Stellantis 18 miliardi. E’ stato sempre Marchionne nel 2018 a vendere la Magneti Marelli alla società giapponese CK holdings controllata dal fondo KKR. Ha incassato 6,2 miliardi di euro, l’azienda aveva un giro d’affari di circa 8 miliardi con 43 mila dipendenti (10 mila in Italia), ma a quanto pare è finita in un cul de sac. 


Allora è colpa di KKR? Certo, per acquisire il gruppo della componentistica il fondo americano ha usato quel che a Wall Street e dintorni chiamano il leveraged buyout, in soldoni vuol dire pagare a debito scaricando gli oneri non sull’acquirente, ma sull’acquisito, grazie alla possibilità di offrire in garanzia l’attività della impresa comprata. Non c’è dubbio che i conti della Marelli siano stati aggravati da un indebitamento diventato pesantissimo quando il lockdown ha bloccato l’attività e ha contribuito a far crollare la domanda di veicoli. Nel 2020 era salito a otto miliardi di euro, tanto quanto i fatturato, ed è cominciato il difficile negoziato con le banche per ristrutturarlo. Certo, dopo è venuto un bel rimbalzo, ma la ripresa nell’auto è stata comunque più lenta, così non ha potuto evitare l’inflazione e il rincaro del denaro. Il debito con i tassi zero era meglio del capitale proprio, con i tassi al 4,5% rischia di distruggere l’impresa. E abbiamo trovato un altro colpevole, anzi un’altra perché si tratta di Madame Bce, in arte Christine Lagarde, sulla quale il governo e buona parte della politica italiana sta scaricando ogni sua difficoltà. 


Nel frattempo la catena del valore s’è bloccata, si sono moltiplicati i colli di bottiglia e la divisione internazionale del lavoro è cambiata più rapidamente di quanto ci si aspettasse. Asia a parte, anche nella Vecchia Europa si sono fatti avanti altri paesi, quelli dell’est come la Repubblica ceca, ma soprattutto la Spagna che ormai è numero due dopo la Germania e numero nove al mondo con oltre due milioni di esemplari l’anno, surclassando non solo l’Italia ridotta ormai a poco più di 473 mila vetture, ma anche la Francia che sta attorno al milione. Bisogna essere rapidi ed efficaci nel cogliere l’onda, la Marelli non lo è stata, come del resto quell’Italia che si è beata degli eccellenti risultati ottenuti dalla componentistica old fashion e ha reagito (anzi sta ancora reagendo) con una logica sostanzialmente protezionistica. Sia chiaro, va bene allungare i tempi della transizione per agevolare la riconversione produttiva, ma scavare trincee per difendere il motore endotermico perinde ac cadaver, serve solo a moltiplicare le crisi. E nessuno vuole una, dieci, cento Marelli. 


Prima dell’incontro di ieri, il ministro Adolfo Urso s’è dichiarato fiducioso: “Ho lavorato per evitare la chiusura dello stabilimento di Crevalcore”, ha dichiarato. I vertici dell’azienda sottolineano che dal 2017 il fatturato è calato del 30 per cento e potrebbe dimezzarsi nei prossimi anni. Il gruppo vorrebbe trasferire la lavorazione di plastica a Bari, mentre la produzione dei componenti in alluminio sarà esternalizzata. Non ci sono conseguenze, invece, per lo stabilimento di Bologna, l’ex Weber, dove lavorano 560 persone soprattutto nel settore progettazione e ricerca. Il piano prevede un taglio di tremila posti di lavoro, circa 500 in Italia e la chiusura di alcune sedi (come quella bolognese). Ma non basterà. Occorre aumentare il capitale, il fondo KKR dovrebbe aprire il portafoglio. E’ dubbio che lo faccia. Secondo alcuni, avrebbe deciso di cambiare cavallo e puntare le sue risorse sulle telecomunicazioni (di qui l’impegno in Italia nella scissione della rete da Tim) mollando comparti che richiedono ingenti somme di denaro bloccate per molto tempo. La componentistica auto è un settore industriale rischioso che richiede lo sguardo lungo con gli occhiali da miope. Non c’è certezza sul domani, sui tempi e i modi della Grande Trasformazione. Non è il menu adatto per un fondo d’investimento abituato al fast food.


La nostra rassegna delle colpe non è completa senza Stellantis. Dovremmo collocarla in primo piano come ha fatto Carlo Calenda? Beh, il senatore nonché segretario di Azione non ha tutti i torti. “La Fiat se ne sta andando, anzi se ne è già andata”, ha sentenziato. “Guardate i numeri della produzione negli stabilimenti. Nessuno sta dicendo niente oggi sul fatto che le macchine sono diminuite del 30 per cento dall’epoca di Marchionne. Non lo si sta dicendo, perché la Fiat e in particolare gli Elkann sono i proprietari di Repubblica, il principale giornale della sinistra”. Calenda la butta in politique politicienne. Ieri il Corriere della Sera ha pubblicato un editoriale sul declino dell’auto italiana e un articolo che mostra come Stellantis abbia in realtà emarginato l’Italia. Nel commento di prima pagina, Nicola Saldutti scrive che l’alleanza con il gruppo Psa “si è trasformata in poco tempo in una vendita di fatto: un arretramento della presenza italiana con il rafforzamento degli stabilimenti francesi”. Da lì entro il 2026 usciranno 24 nuovi modelli, da quelli italiani solo 13. Non sarà tutto made in France perché la catena produttiva resta molto ampia e diversificata, ma c’è una cifra che preoccupa ancor più dell’assemblaggio che di per sé è la parte finale e di minor valore. Se risaliamo dalla coda alla testa, infatti, scopriamo che sono stati depositati in Francia 1.239 brevetti, in Italia solo 166. “E’ incredibile che la politica non abbia colto i segnali di questa progressiva ritirata”, aggiunge Saldutti. Arrivare a un milione di vetture come promesso da Carlos Tavares al ministro Urso, oggi non sembra realistico. Ragionando con le categorie mediatico-politiche, potremmo dire il Corsera contro la Repubblica. Del resto, Maurizio Landini continua a parlare urbi et orbi senza mai citare Stellantis e ha ispirato il boicottaggio di Calenda. 


Se entriamo nella filiera delle componenti, quella che riguarda più direttamente la Marelli, vediamo che il gruppo francese Forvia (ex Faurecia), è uno dei primi al mondo (Bosch è il numero uno) con un fatturato da 26 miliardi di euro. Ha sempre alimentato la Peugeot e, anche se oggi il primo cliente è Volkswagen, rimane all’interno della cornice Stellantis che ne possiede il 57%. Esattamente il contrario di quel che è successo all’azienda italiana che pure nacque nel lontanissimo 1919 grazie a un accordo tra Ercole Marelli, il re dell’elettromeccanica, e il rampante Giovanni Agnelli il quale aveva preso il comando della giovane Fiat. La Marelli è stata venduta per far cassa, ma anche per liberarsene. Marchionne avrebbe potuto seguire il metodo Ferrari, scorporarla, quotarla in borsa, farne il punto di riferimento tecnologico, non solo produttivo della transizione, leader della filiera italiana come la Forvia lo è per quella francese. Super Sergio, però, non ci credeva, assecondato dall’intera plancia di comando della FCA e dal suo azionista di riferimento. L’amore della Fiat s’era spento già da tempo. Il gruppo torinese, prima ancora di prendere la Chrysler, pressato dall’impellente necessità di trovare denaro fresco, aveva ceduto molti dei propri gioielli, per esempio il common rail l’alimentatore a iniezione diretta per motori diesel o a benzina, fiore all’occhiello del Centro ricerche Fiat e della Marelli: era stato ceduto alla Bosch nel 1994, perdendo un vantaggio competitivo notevole, si pensi che la Volkswagen lo ha utilizzato solo nel 2009 dopo aver cercato di competere con la propria tecnologia, rivelatasi inferiore.


La Marelli ha delle eccellenze nel comparto elettrico, tuttavia è evidente che gran parte dei dipendenti lavora per i motori a scoppio ed è noto che un’auto elettrica monta molte meno componenti di una vettura tradizionale. Il suo cuore non batte nei pistoni e nei cilindri, ma nei microprocessori; il chip è la sua mente e il suo sistema nevoso. Ma non basta per far muovere le quattro ruote, e proprio nella terra di mezzo operano imprese come la Marelli senza contare che potrebbe giocare la sua partita nel campo strategico delle batterie. E qui si apre un capitolo parallelo. L’Italia rischia di restare indietro nel grand prix del mondo elettrico. La gigafactory di Stellantis a Termoli, arriverà solo nel 2016. E nulla è garantito. Ma si pensi, nei microprocessori, al caso Intel. Molte speranze sono state riposte sul colosso americano che aveva annunciato nel marzo dello scorso anno l’intenzione di impegnare 4,5 miliardi di euro in Italia per una fabbrica in grado di creare fino a 1.500 posti di lavoro diretti e altri 3.500 nell’indotto. Se vogliamo parlare di transizione, un investimento del genere avrebbe più che compensato la crisi della Marelli. La trattativa era stata avviata con il governo Draghi, poi tutti sono cambiati nel Palazzo del potere. Intanto Intel ha rinegoziato una intesa con il governo tedesco il quale sarebbe disposto ad aumentare i sussidi da 6,8 a 10 miliardi di euro. Inoltre nascerà un impianto in Polonia per l’assemblaggio e i test dei processori, con consistenti sostegni pubblici. E l’Italia? “Le interlocuzioni sono sempre in corso”: è questa la formula con la quale rispondono in perfetta simmetria sia il governo italiano sia il gigante americano dei chip. Anche qui sono in ballo gli aiuti di stato: l’ipotesi era di accollare a Pantalone il 40% delle spese, ma con le finanze pubbliche in sofferenza non sarà facile mantenere l’impegno e non c’è possibilità di alzare la quota. Insomma, con la Marelli ferita, anzi prostrata, Stellantis che promette e finora non mantiene, Intel che veleggia verso altri lidi, davvero si crea un serio svantaggio industriale per il Bel Paese. Hai voglia a mangiare italiano, qui si rischia di mangiare la polvere.