L'analisi
Salario minimo, contrattazione collettiva e tribunali
La soglia oraria non è una panacea, ma può servire a migliorare il sistema senza indebolire i sindacati
Due eventi quasi contemporanei – la pubblicazione della relazione del Cnel sul salario minimo e la pubblicazione della sentenza della Cassazione sull’inadeguatezza del salario di un lavoratore che aveva fatto ricorso in tribunale – hanno permesso di chiarire quello che era inevitabile fin dall’inizio. Che l’introduzione di un salario minimo per legge in Italia può avvenire solo a seguito di una vittoria elettorale e di un mandato popolare. Come del resto è avvenuto in tutti i paesi dove il salario minimo è stato introdotto di recente: in Regno Unito, in Germania ma anche in Sud Africa. Illusorio è il tentativo di Pd e M5s di imporre una soluzione così importante nell’economia di un paese con l’accordo di tutti, soprattutto perché fino all’anno scorso Pd e M5s non erano d’accordo neppure tra di loro. Fino all’anno scorso la relazione del Cnel sarebbe stata votata da tutti i sindacati, inclusa la Cgil che ora si è opposta. La relazione del Cnel mette in evidenza tre cose. Che il tasso di copertura della contrattazione collettiva si avvicina al 100 per cento. Che i contratti pirata alla fine riguardano solo poche migliaia di lavoratori e che, senza nessun bisogno di una legge sulla rappresentanza, già oggi il Cnel attraverso una verifica amministrativa in collaborazione con l’Inps e l’Ispettorato nazionale del lavoro può segnalarli al ministero e alle parti sociali. Che al 1° settembre 2023 risulta che al 54 per cento dei lavoratori dipendenti del settore privato si applicano Contratti collettivi nazionali di lavoro tecnicamente scaduti.
La conclusione ampiamente scontata è che non c’è nessun bisogno del salario minimo legale in Italia. Conclusione scontata visto che sia il presidente Brunetta sia Tiraboschi (il coordinatore della relazione) sono sempre stati contrari al salario minimo per legge e strenui difensori della contrattazione collettiva. La contrattazione collettiva, quale sede storica della dialettica tra istanze economiche e sociali del mercato del lavoro, non è infatti, secondo la Commissione, un semplice equivalente di una contrattazione economica individuale, ma piuttosto una vera e propria istituzione “politica”. Il problema della relazione del Cnel è che lo status quo è difficilmente difendibile: i salari italiani dei lavoratori marginali sono molto bassi e la contrattazione che pure è molto estesa non li protegge nei fatti. Il Cnel non produce soluzioni alternative al salario minimo (che pure non è una soluzione definitiva, ma comunque è applicata nella grande maggioranza dei paesi europei). Le giornate medie retribuite in Italia sono 235 (Istat), nei servizi di alloggio e di ristorazione le giornate medie di lavoro sono solo 143. In particolare donne e giovani lavorano per troppe poche ore per poter mettere insieme un salario mensile decente. Questo argomento delle poche ore lavorate è utilizzato per sostenere che non serve un salario minimo orario, ma è esattamente il contrario: in tutti i paesi dove c’è, il salario minimo protegge in primis proprio donne e giovani in contratti precari e con poche ore lavorate. La funzione del salario minimo è quella di dare un punto di riferimento certo e noto a tutti – lavoratori, datori e clienti che usufruiscono dei servizi prodotti dal lavoro – e quindi rendere i controlli sull’adeguatezza della retribuzione, a iniziare dal controllo sociale, molto più semplici e pervasivi.
Il problema delle opposizioni e della Cgil è che ha inteso il salario minimo legale come il modo per alzare i salari dei contratti collettivi quando non ci riesce attraverso la contrattazione collettiva. La cifra di 9 euro è così alta che riguarderebbe il 20 per cento circa dei lavoratori mentre in tutto il mondo il salario minimo riguarda al massimo il 10 per cento dei lavoratori. In questo modo certo si rischierebbe di spiazzare la contrattazione che è esattamente quel che il sindacato ha temuto fino a ieri e che lo ha sempre spinto a essere contrario a un salario minimo per legge. Eppure dove è stato introdotto il salario minimo, a un livello corretto rispetto ai salari vigenti, non c’è nessuna evidenza che abbia spiazzato la contrattazione collettiva (esistono due studi per la Germania a opera di studiosi vicino ai sindacati). Caso mai tutti i paesi si sono preoccupati che il minimo non fosse così alto da provocare disoccupazione o da trascinare al rialzo i salari sopra la soglia.
Il secondo evento cruciale di settimana scorsa è la sentenza della Cassazione che attribuisce al giudice di dire l’ultima definitiva parola sulla corrispondenza della retribuzioni ai canoni dell’articolo 36 della Costituzione, quindi al di sopra sia della contrattazione collettiva sia di un’eventuale legge sul salario minimo. Ma anche qui, non mi pare che esista una valida alternativa se non approvare una legge sul salario minimo che forse dovrà passare il vaglio della Corte Costituzionale ma, una volta superato quello, diverrebbe, come in tantissimi altri paesi, una norma importante per regolare il funzionamento del mercato del lavoro per una piccola e fragile percentuale di lavoratori.