l'analisi
Perché è giusta la stretta del governo sul bonus per il "rientro dei cervelli"
Lo sconto delle tasse fino al 90% a chi ha lavorato all'estero ha elementi di forte iniquità. I beneficiari hanno un reddito medio di oltre 130 mila euro e fino a 100 mila euro non pagano tasse. Per migliorare la competitività servono riforme
Il governo intende stringere i cordoni della borsa e tagliare gli incentivi per il “rientro dei cervelli”. Le opposizioni sono insorte e sono state lanciate petizioni online contro il governo che “continua a favorire realmente i ricchi a discapito della gente normale”, ma siamo sicuri che queste agevolazioni fiscali siano un provvedimento davvero utile ed equo? Le due questioni sono e vanno mantenute distinte.
Gli sconti fiscali per i lavoratori con alto capitale umano sono stati introdotti per la prima volta nel 2004, quando erano riservati a ricercatori e docenti universitari, ma è solo a partire dal 2010 che hanno iniziato a diventare davvero efficaci. Poi, come accade con molti bonus, prima nel 2015 e poi nel 2019, la platea dei potenziali beneficiari è stata progressivamente allargata e lo sconto sulle tasse esteso. Con l’ultima modifica, firmata dal governo Conte II, i lavoratori che hanno passato almeno due anni all’estero e mantengono la residenza fiscale in Italia per almeno altri due anni godono di una riduzione dell’imponibile del 70% (per professori e ricercatori è del 90%): pagano le imposte ordinarie solo sul restante 30%, a meno che non si stabilizzino al Sud, nel qual caso l’imponibile scende ad appena il 10%. In pratica, considerando la no tax area, fino a circa 100 mila euro non si pagano tasse.
Giorgia Meloni intende mettere dei paletti: la quota di reddito esente dalle imposte scenderà dal 70% al 50%, l’agevolazione per il Mezzogiorno sarà cancellata e il periodo minimo di permanenza in Italia salirà da due a cinque anni. Inoltre, sarà imposto un tetto di 600 mila euro al reddito ammissibile allo sgravio. Con queste modifiche, dunque, il trattamento resterà molto generoso, anche se non quanto lo era nel passato.
Dal punto di vista fiscale, l’agevolazione ha due effetti: da un lato, l’aspettativa di un trattamento molto conveniente può indurre un maggior numero di rientri (che è il suo vero obiettivo). Dall’altro, fa sì che anche coloro che sarebbero tornati comunque paghino meno tasse. Uno studio degli economisti Jacopo Bassetto e Giuseppe Ippedico ha trovato che effettivamente il numero di rientri è aumentato e che il maggior gettito è grossomodo tale da controbilanciare gli sconti concessi a quelli che si sarebbero trasferiti in Italia a prescindere dagli incentivi. L’analisi, però, si concentra sui beneficiari del decreto “Controesodo” del 2010, cioè soltanto i laureati nati dopo il 1969. Poiché le modifiche successive hanno mantenuto pressoché invariato il beneficio, ampliando la platea dei lavoratori eleggibili, è ben probabile che l’ago della bilancia penda adesso verso i maggiori costi per l’erario. Se anche così non fosse, resta un altro aspetto: come si può giustificare un regime fiscale che tratta in modo radicalmente diverso due lavoratori, che svolgono le stesse mansioni, che hanno seguito lo stesso percorso formativo, che hanno le medesime competenze, che magari lavorano gomito a gomito e che si differenziano solo perché uno ha passato del tempo all’estero?
Ma c’è di più, oltre all’iniquità orizzontale che appunto tassa molto diversamente persone che hanno lo stesso reddito, c’è anche una forte iniquità verticale: secondo i dati riportati dal Corriere economia, i 19.400 lavoratori beneficiari dello sgravio hanno un reddito lordo medio di 131.920 euro. circa 6 volte la media nazionale, pertanto gli incentivi al rientro dei cervelli hanno un effetto fortemente regressivo. Ovvero, fanno pagare a chi ha redditi elevati un’aliquota molto più bassa rispetto a chi è più povero. Questa caratteristica era ancora più pronunciata, logicamente, quando il beneficio era riservato solo ai laureati.
E la conferma indiretta di questa insopportabile diversità di trattamento viene dal fatto che, ai fini dell’imposta sul reddito, si è considerati “ricchi” se si superano i 50 mila euro, soglia in corrispondenza della quale scatta l’aliquota marginale più elevata al 43% (e oltre la quale questo stesso governo taglia le detrazioni per bilanciare il taglio di due punti dell’Irpef). Invece, ai fini del rientro dei cervelli si è ritenuti ricchi soltanto dopo i 600 mila euro – e, prima che Meloni e Giorgetti mettessero mano, non si diventava mai abbastanza ricchi da poter essere trattati come gli altri.
Va considerato che in generale norme del genere sono state utili a far rientrare ricercatori e professori che altrimenti non sarebbero mai tornati in università italiane che offrono stipendi bassi. Per questo il governo non intende toccare il generoso sconto ai cattedratici che consente all’accademia italiana di essere un po’ più competitiva. Ma anche in questo caso una riflessione andrebbe fatta. Se nell’università italiana esiste un problema di competitività, a causa di stipendi troppo bassi e appiattiti (e uguali per tutti), ciò che serve è una riforma meritocratica del reclutamento universitario. Distorcere il sistema fiscale per tutti i contribuenti per mettere una toppa a un sistema universitario sclerotico e irriformabile è un modo per convivere con i problemi anziché affrontarli. È, in sostanza, la differenza che c’è tra elargire bonus e fare le riforme.