Mediobanca senza futuro
Lo scontro tra Nagel e Milleri in Mediobanca e l'identità di un gioiello ormai senza più senso
Cosa c'è in gioco nell'assemblea di sabato prossimo del futuro dell'istituto bancario. Chi vincerà tra un management, accusato di essere autoreferenziale, e due imprenditori oltre che azionisti, accusati di voler rovesciare gli equilibri interni per puntare ad Assicurazioni Generali?
“Secondo me un manager illuminato ha tutto l’interesse ad avere accanto una proprietà responsabile. Un manager che pensi di fare da solo è come un imputato che si difende da sé e non vuole l’avvocato”. Gianni Agnelli non aveva sempre ragione, ora che il mito scende sulla terra ne sono convinti anche i suoi più irriducibili fan. Ma tra i tanti detti dell’Avvocato, questo risalta con estrema attualità alla vigilia della battaglia (l’ultima di una lunga serie) per la guida della Mediobanca. Era il 1983 e il capo supremo della Fiat parlava ad Arrigo Levi, direttore della Stampa, sulle sorti del capitalismo italiano in una intervista pubblicata da Laterza. Quattro anni dopo toccò a Bruno Visentini, insigne giurista, senatore repubblicano e sfortunato presidente della Olivetti, scrivere sulla Repubblica di Eugenio Scalfari: “Ritengo indispensabile anche nelle grandi imprese una presenza capitalistica imprenditoriale come forza virile. L’impresa di tutti rischia di risolversi nell’impresa di nessuno e apre la via al controllo pubblico”, concludeva in pieno spirito schumpeteriano.
Erano in ballo le sorti della Montedison e della stessa Mediobanca che la Dc e Romano Prodi, presidente dell’Iri, voleva privatizzare per ridimensionare se non proprio estromettere Enrico Cuccia. Niente di nuovo sessant’anni dopo?
In realtà il confronto tra modelli di capitalismo si ripropone sempre, ma ancor più oggi che siamo nel bel mezzo di una grande trasformazione. Per questo l’assemblea della Mediobanca sabato prossimo diventa paradigmatica al di là di chi vincerà tra un management, accusato di essere autoreferenziale, e due imprenditori oltre che azionisti rilevanti, cioè gli eredi di Leonardo Del Vecchio e Francesco Gaetano Caltagirone, accusati di voler rovesciare gli equilibri interni per puntare al bersaglio grosso, cioè le Assicurazioni Generali delle quali la banca fondata da Cuccia è primo azionista e dominus incontrastato.
La partecipazione s’annuncia tra le più folte, oltre il 70 per cento, la battaglia tra le più aspre dove le azioni si contano e si pesano. Su un piatto della bilancia c’è il management guidato da Alberto Nagel amministratore delegato dal 2008 (ben quindici anni), fiancheggiato dai fondi d’investimento (ultimo a dichiararsi il colosso norvegese presente in tutte le maggiori banche italiane); sull’altro piatto la Delfin della famiglia Del Vecchio, rappresentata da Francesco Milleri con il 19,8 per cento delle azioni, appoggiata da Caltagirone con il 9,9 per cento. La lista preparata dal consiglio di amministrazione uscente secondo le stime della vigilia sembra avere abbastanza peso e numero per prevalere; ma troppo spesso chi entra Papa esce cardinale.
Nagel è appoggiato dal patto di consultazione (con, tra gli altri, Mediolanum, Gavio, Ferrero) che raccoglie circa il 10% delle azioni, più o meno come Caltagirone. L’amministratore delegato ha presentato candidati della sua lista (formalmente del consiglio uscente) alla quale Delfin ha risposto a inizio ottobre con una lista di minoranza, composta da cinque e non più sette candidati. I primi secondo lo statuto entreranno sicuramente in cda. Se invece la Delfin arriverà in testa potrà nominare tutti i suoi cinque e il presidente del collegio sindacale. Milleri aveva chiesto una presidenza affidata a un candidato alternativo e condiviso, sostituendo Renato Pagliaro che presiede da tredici anni, ma Nagel ha risposto con il più classico arrocco, così sabato prossimo verrà confermato il vertice che ha governato la banca compreso il direttore generale Francesco Saverio Vinci. Oltre ai tre top manager altri nove consiglieri sono già sicuri del loro posto (Laura Cioli, Valérie Hortefeux, Laura Penna, Vittorio Pignatti Morano, Angel Vilà Boix e Virginie Banet), più i due candidati della lista Delfin (Sandro Panizza e Sabrina Pucci) e il rappresentante degli investitori istituzionali Angela Gamba. Restano dunque solo tre poltrone. Se la maggioranza dei voti premierà Nagel, siederanno in consiglio Marco Giorgino, Mana Abedi e Maximo Ibarra. Se prevarrà la lista presentata da Francesco Milleri per Delfin, ci saranno Massimo Lapucci, Cristina Scocchia e Jean-Luc Biamonti. Dunque, è già tutto cucinato? No, mancano ancora le spezie piccanti.
Sugli indecisi influiranno anche le opinioni espresse dai proxy advisor i suggeritori capaci di influenzare le scelte, le “voci silenziose”, ma spesso determinanti, figure in parte nuove rispetto ai tempi di Visentini e Agnelli che non piacciono nemmeno a Caltagirone. Nell’ultima settimana si sono manifestati quattro “persuasori occulti”, tutti a favore della lista del consiglio uscente: Iss, Glass Lewis, Pirc e Egan-Jones, questi ultimi due molto influenti tra i fondi pensione britannici e americani. Pirc in particolare è stato critico con Delfin. Al contrario un piccolo azionista, l’imprenditore Romano Minozzi che ha solo l’1% di Mediobanca, ma guida Iris, un gruppo delle ceramiche da un miliardo e mezzo di fatturato, ha fatto sentire la sua voce contro “i banchieri che non devono chiudersi in una casta”, mentre la Delfin può portare una “visione imprenditoriale, un’aria fresca”. Un’argomentazione simile a quella usata da Caltagirone nella sua audizione al Senato durante la quale ha ripercorso la battaglia perduta nelle Generali e ha criticato il meccanismo della lista del board, nato negli Stati Uniti e calato nella realtà italiana che “ha una struttura di diritto completamente diversa” dove l'azionista stabile non può scegliere i singoli componenti ma la lista in blocco e chi la compila "inserisce persone che assecondano la loro visione”. Nelle scorse settimane s’è fatta avanti anche Poste Italiane con una quota che potrebbe arrivare al 3 per cento, ma non eserciterà il diritto di voto in assemblea (ma il suo non voto farà comunque abbassare il quorum). C’è ancora tempo per comprare azioni che possono essere prestate e presentate per il voto fino al giorno dell’assemblea. Nell’intervista al Sole 24 Ore Milleri ha confermato che Delfin vuole restare socio stabile, di lungo periodo. Del resto, ha approvato il piano industriale e ha goduto, come tutti gli azionisti, di una pioggia di dividendi.
Meglio non fidarsi della pretattica, nulla è scontato, si conterà anche l’ultimo voto. Nagel non perderà il suo posto, tuttavia non può nemmeno guidare una banca senza il consenso necessario, soprattutto ora che restano aperti gli interrogativi sollevati da Del Vecchio e Caltagirone: primo, che cos’è Mediobanca e cosa deve fare; secondo, un management che si ripropone sempre uguale non finisce per diventare una oligarchia che risponde solo a se stessa? Voluta da Raffaele Mattioli e da Cuccia come banca d’affari, non lo è più, non soltanto, già da tempo. Mediobanca si definisce “un gruppo finanziario specializzato”, attivo nella gestione dei patrimoni, nella raccolta di risparmio con CheBanca!, nel credito al consumo con Compass e banca d’investimento il mestiere un tempo prevalente. E si presenta così: “Negli ultimi dieci anni abbiamo raddoppiato i ricavi grazie allo sviluppo internazionale delle attività. Nell’esercizio chiuso al 30 giugno 2023, ci siamo posizionati tra le migliori banche europee per crescita di ricavi, redditività, remunerazione degli azionisti e performance di mercato, nonostante un contesto di mercato sempre più sfidante”. Le cifre: 3,3 miliardi di ricavi, un miliardo e 27 milioni di risultato netto, impieghi per 53 miliardi di euro. In borsa capitalizza circa nove miliardi di euro e si colloca al terzo posto anche se molto lontana dalle prime due, Intesa Sanpaolo (43 miliardi di euro) e Unicredit (41 miliardi). La strategia “standing alone” ha dato frutti, tuttavia non è in grado di far salire abbastanza scalini, secondo molti analisti ciò è dovuto a quello che a un tempo è il pallone aerostatico e la zavorra di Mediobanca: il Leone di Trieste che continua ad avere un ruolo preponderante nei profitti di piazzetta Cuccia. Oltre 450 milioni di euro – circa la metà dell’utile sia l’anno scorso sia quest’anno – provengono dalla compagnia triestina che con la gran massa finanziaria gestita (613 miliardi lo scorso anno) è un deposito di munizioni, una leva operativa, una ipoteca politica. Lo è sempre stata e Cuccia ne ha custodito a lungo la chiave in una cassetta di sicurezza chiamata Euralux le cui copie erano in mano ad Agnelli, ai cugini De Benedetti e alla banca Lazard. È rimasta a lungo segreta, l’ha rivelata Cesare Merzagora e non ha più presieduto le Generali.
Dagli anni ’90 con la privatizzazione delle tre banche dell’Iri (Comit, Credit e Banco di Roma) azioniste principali e finanziatrici a tassi privilegiati, il cordone ombelicale con Trieste è diventato vitale, ma ha finito per ostacolare sia la banca sia la compagnia. La prima ha praticato la lesina ogni qualvolta le Generali avevano bisogno di consistenti capitali per espandersi soprattutto all’estero. La seconda si è trovata in casa un azionista ad un tempo imprescindibile e riluttante. L’una e l’altra sono diventate i campi di battaglia per chiunque volesse salire in cima alla piramide del capitalismo italiano. C’è stato un tempo in cui lo stesso Nagel faceva dire di essere pronto a ridurre la quota nella Generali o persino a venderla per veleggiare libero e leggero nel gran mare della globalizzazione. Non c’è da mettere in dubbio la buona fede, ma come dicono nella sua Londra, era wishful thinking (in italiano pia illusione). Ora l’amministratore delegato ha presentato un piano industriale che gli analisti hanno trovato convincente perché conferma e consolida, soprattutto nella gestione patrimoniale, la strategia quadricipite seguita in questi anni. Tuttavia c’è da chiedersi quale grande affare, quale rilevante fusione e acquisizione in giro per il mondo è stata concepita e trattata a piazzetta Cuccia. E quale ruolo può giocare nel processo di aggregazione del sistema creditizio italiano che è una partita non solo domestica e non solo bancaria, ma una grande questione nazionale perché coinvolge il risparmio di uno dei paesi più risparmiatori quanto meno in Europa, e nello stesso tempo il finanziamento del gigantesco debito pubblico. Quale futuro oltre le Generali? E’ la domanda che se fossimo azionisti di Mediobanca (non vogliamo né possiamo esserlo per etica professionale) ci piacerebbe porre sabato all’assemblea.