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La ricchezza degli italiani potrebbe essere una leva per la crescita
Nonostante l'impatto della pandemia sulla spesa delle famiglie italiane, l'inflazione e il rialzo dei tassi di interesse, il livelli di risparmio e di rendita nazionali restano consistenti
Il pauperismo, malattia infantile del populismo, è stato messo in discussione di nuovo dalla Banca d’Italia. Le famiglie italiane hanno una ricchezza finanziaria pari a 5.300 miliardi di euro, quattro volte il reddito disponibile. Se si aggiungono case e terreni si arriva quasi a 11 mila miliardi. Il dato è stato presentato l’altro ieri alla tradizionale giornata del risparmio, dal governatore uscente Ignazio Visco, ma quasi nessuno se ne è accorto. Eppure, chi di questi tempi ascolta i pastoni politici dei telegiornali, si abbevera ai tambureggianti talk show, legge i titoli delle notizie rilanciate dai social media, dovrebbe essere sorpreso. E la pandemia e le bollette e l’inflazione e la disoccupazione e le pensioni e la povertà crescente? La Banca d’Italia ha più volte scandagliato gli averi delle famiglie e delle imprese, ricostruendo anche la loro redistribuzione. La conclusione è sempre la stessa: resta una forte divisione tra ricchi e poveri, ma nonostante tutto quel che è successo, non c’è stata nessuna “proletarizzazione” della classe media e non s’è allargata la forbice tra chi ha e chi non ha. Nemmeno il Covid ha provocato un impoverimento generalizzato. Anzi, “nel 2020 si è assistito a un eccezionale incremento del risparmio delle famiglie, fino a ben oltre il 20 per cento del loro reddito disponibile nel secondo trimestre di quell’anno”, ha detto Visco. Come mai? Perché la gente ha consumato meno, continuando ad accantonare risorse per proteggersi “anche se il crollo dell’attività produttiva è stato ampiamente attenuato dalle misure disposte dal governo”. Lo stesso è successo nel 2021 nonostante il forte rimbalzo della produzione. Sono comportamenti collettivi comprensibili. L’inflazione e il rialzo dei tassi d’interesse hanno invece ridotto la propensione a risparmiare fin dalla metà dello scorso anno, tanto che in termini reali oggi è leggermente meno che prima della pandemia.
Dal secondo semestre del 2021, con il progressivo rialzo del costo dell’energia, poi esploso dopo l’invasione russa dell’Ucraina, il costo della vita ha cominciato a erodere il potere di acquisto delle famiglie e il valore reale dei loro risparmi. Il risparmio addizionale resta consistente, tuttavia la ricchezza finanziaria in termini reali si colloca oggi lievemente al di sotto dei livelli prepandemici, ma lo stesso è accaduto in media in tutti i paesi dell’area dell’euro. Esaminando il settore privato nel suo complesso, cioè famiglie e imprese, la disponibilità di risparmio per l’economia nazionale (inclusi quindi gli utili non distribuiti delle società non finanziarie), è ancora intorno al 20 per cento del reddito disponibile, lo stesso livello del 1998 quando l’euro ancora non circolava. L’inflazione condiziona senza dubbio l’impiego del risparmio. Si sono ridotti i depositi a vista che erano cresciuti in modo molto consistente nonostante non vengano remunerati, e sono aumentati gli impieghi nel debito pubblico. Nei primi sei mesi di quest’anno, in particolare, si sono registrati oltre 70 miliardi di acquisti netti di titoli del debito pubblico, un valore molto elevato nel confronto storico, calcola la Banca d’Italia. La quota di questi Btp comprati direttamente dalle famiglie sul totale delle loro attività finanziarie ha raggiunto il 4,2 per cento, il valore più alto dal 2014; quella dei depositi il 26,0 per cento, il valore più basso dal 2008. Bankitalia stima che tenendo, anche conto dei buoni del Tesoro detenuti indirettamente a fronte di investimenti in fondi comuni, la quota salga a circa il 7 per cento, oltre il 16 per cento del totale dei titoli pubblici.
Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti può tirare un sospiro di sollievo. Non fa altrettanto la Confindustria perché l’impiego della ricchezza nella “rendita nazionale” spiazza gli investimenti privati dei quali c’è gran necessità se si vuole evitare la recessione. Gli imprenditori lamentano di essere stati discriminati da una finanziaria che riserva loro solo l’8 per cento delle risorse. Senza prendere parte al coro delle geremiadi, di fronte alle cifre della Banca d’Italia risalta l’impronta non solo della legge di bilancio, ma della politica economica nel suo complesso, basata com’è ancora e sempre sui sussidi e sulle rendite, anziché sostenere i redditi con l’aumento del pil. Da questo orizzonte pauperistico non escono nemmeno le opposizioni che reclamano più bonus e più “diritti”. Nessuno ha una proposta per mettere in circolo almeno una quota di quei 5.300 miliardi. Avanti così, in marcia verso crescita zero.