l'analisi
I paradossi della vicenda giudiziaria di Airbnb col fisco italiano
Non esiste alcun profitto illecito da recuperare in capo ad Airbnb: l’iniziativa della procura di Milano appare a dir poco avventata
Airbnb è stata recentemente accusata di aver evaso sistematicamente le imposte dovute sugli affitti brevi da essa intermediati, nell’ambito di una vicenda che, al di là della cronaca, si presta ad alcune riflessioni più generali di politica legislativa e giudiziaria.
Tutto parte da una norma del dl n. 50 del 2017 che, nell’introdurre la cedolare secca al 21 per cento per le locazioni brevi, ha stabilito altresì, per i soggetti che esercitano attività di intermediazione immobiliare o gestiscono portali telematici mettendo in contatto gli host e i potenziali locatari (come fa Airbnb), l’obbligo di segnalare all’amministrazione finanziaria i contratti stipulati nonché, qualora intervengano nel pagamento dei canoni di locazione, di effettuare una ritenuta all’atto del riversamento delle somme al locatore e di versarla all’erario. Si tratta di un’estensione del tradizionale modo di operare della tassazione alla fonte e della “sostituzione d’imposta”, che normalmente implica un obbligo di ritenuta in capo a chi è debitore di somme costituenti reddito per il percipiente: giacché quest’obbligo non può essere imposto ai locatari, privati non imprenditori, lo si è addossato agli intermediari – residenti o aventi in Italia una stabile organizzazione – che intervengono nella riscossione delle somme.
L’obbligo è tuttavia stato esteso anche ai soggetti esteri privi di stabile organizzazione in Italia, imponendo agli stessi di nominare, per far fronte ai nuovi adempimenti non già in qualità di “sostituti” bensì di “responsabili d’imposta”, un rappresentante fiscale in Italia.
Airbnb, ritenendo il dl 50/2017 in contrasto con alcune norme e princìpi comunitari, tra cui quello di libera prestazione dei servizi, ha scelto di non adempiere e di sollevare alcuni profili di presunta illegittimità della norma per contrasto con il diritto dell’Ue. Dopo alterne vicende giudiziarie e un pronunciamento della Corte di Giustizia che ha ritenuto la normativa italiana compatibile con il diritto comunitario tranne che per l’obbligo di nomina del rappresentante fiscale, il Consiglio di stato ha da ultimo sancito la legittimità dei provvedimenti attuativi della legge contestata e conseguentemente l’obbligo per Airbnb di adempiere.
Si innesta a questo punto la vicenda del sequestro penale preventivo disposto dalla procura di Milano, pari all’ammontare delle ritenute che Airbnb avrebbe dovuto operare. Si tratta di un esito per molti versi paradossale, poiché non è chiaro quale reato avrebbero commesso gli amministratori di Airbnb e non si comprende come possa considerarsi “profitto del reato” un ammontare che Airbnb non ha trattenuto per sé ma ha interamente riversato agli host, cioè ai locatori clienti della piattaforma.
Anzitutto, come detto, non si vede dove stia il reato. Da un lato, entrambe le ipotesi legali di reato previste dal d. lgs. 74/2000 a carico dei sostituti d’imposta presuppongono il mancato versamento di ritenute che sono state effettuate, mentre Airbnb non ha mai operato le ritenute; dall’altro, i soggetti esteri senza stabile organizzazione italiana (come Airbnb) sono qualificati dal dl 50/2017 come “responsabili d’imposta” e non come “sostituti”, giacché il legislatore era consapevole che, in base a una prassi ultraventennale dell’Amministrazione finanziaria e per ragioni di effettività della norma, non possono rivestire il ruolo di sostituti d’imposta i soggetti esteri privi di base fissa in Italia, “in ragione della delimitazione territoriale della potestà tributaria dello stato”.
Da qui il “pasticcio” legislativo: pur di imporre a forza un obbligo di operare ritenute, si è attribuito ai soggetti esteri la qualifica di “responsabili d’imposta” pur a fronte di obblighi che appaiono sostanzialmente di “sostituzione d’imposta”. E ciò in continuità con le scelte legislative degli ultimi anni, come le varie web o digital tax, che denotano insofferenza verso le grandi multinazionali (soprattutto americane) che, prive di basi fisse in Italia, possono qui operare senza corrispondere, del tutto legittimamente in base alle leggi vigenti, imposte sul reddito.
Ma il punto in cui la vicenda assume contorni grotteschi è nella motivazione del provvedimento di sequestro penale, in cui viene paventato il rischio “che la somma oggetto di illecito risparmio fiscale venga interamente dispersa e non possa, nemmeno in parte, essere destinata al pagamento del debito, così aggravando le conseguenze del reato contestato, sia con riguardo al mancato incasso del debito erariale da parte della Pa sia con riguardo al danno economico a tutti gli altri operatori del settore che invece versano regolarmente tale imposta”, nonché “agevolando la commissione di altri reati fiscali a mezzo del reimpiego nella medesima attività commerciale, generando quindi con analogo meccanismo ulteriori ipotesi di reato”.
E’ evidente che siamo di fronte a un clamoroso travisamento della realtà. Airbnb non può aver trattenuto illegittimamente l’importo delle ritenute che non ha mai effettuato: i canoni, per quanto sappiamo, sono stati interamente riversati ai locatori (al netto della provvigione spettante Airbnb). Non esiste alcun profitto illecito da recuperare in capo ad Airbnb, che non si è appropriata di alcunché, e l’iniziativa della procura di Milano, avallata dal gip, appare a dir poco avventata.
Quanto al recupero in via amministrativa, da parte dell’Agenzia delle entrate, degli importi non assoggettati a ritenuta, la stessa è ovviamente possibile (così come è prevista una sanzione amministrativa a carico del sostituto che non abbia effettuato le ritenute cui era tenuto per legge) ma andrebbe coordinata con l’eventualità che gli host abbiano assolto in proprio alla cedolare secca. Qualora ciò sia avvenuto, come appare verosimile almeno in un numero significativo di casi, dato che oltretutto si sta parlando di pagamenti tracciati, il recupero della ritenuta darebbe luogo a una doppia imposizione dello stesso reddito, vietata dall’ordinamento.