Produttività, questa sconosciuta. Uno studio sull'Italia e oltre
L’occupazione non cala ma aumenta, perché l’effetto di minor intensità di lavoro è sopravanzato dalla necessità di aumentare gli occupati per far fronte alla maggior domanda che sui mercati si è in grado di soddisfare
In Italia ci stiamo abituando a fenomeni malsani che invece consideriamo positivi. Ad esempio la crescita di occupati – siamo al record dacché esiste la serie storica! ripetono enfaticamente i politici – in presenza di una produttività che continua ad aumentare assai meno, e da venticinque anni moltissimo meno che nei paesi avanzati. Come se ciò non significasse che la maggior intensità di occupazione è assorbita proprio dai settori a bassissima produttività, intensità di capitale e valore aggiunto. Oppure a considerare esempio da seguire quello di grandi gruppi e grandi banche che annunciano rilevanti aumenti salariali rispetto a quelli dei contratti nazionali, più cospicui bonus ai propri lavoratori. Dimenticando che né l’una né l’altra cosa sono possibili per la stragrande maggioranza delle piccole imprese italiane.
Nelle politiche pubbliche e in ogni legge di bilancio dei governi di ogni colore, la parola “produttività” continua a mancare, nel dibattito pubblico non è mai pronunciata. Eppure è la soluzione, da accompagnare con politiche e strumenti adeguati.
Un’ottima guida per capirlo viene da un recente paper di quattro giovani economisti dell’Ocse – Sara Calligaris, Flavio Calvino, Martin Reinhard e Rudy Verlhac – pubblicato lo scorso agosto e ora rilanciato dal Cepr. Il titolo dice tutto: qual è il trade off tra produttività e occupazione? Da quarant’anni la ricerca economica è molto divisa. La corrente maggioritaria segue economisti come Acemoglu, Lelarge e Restrepo, molto critici sull’effetto distruggi-lavoro e aumenta-diseguaglienze indotto dai balzi in avanti tecnologi. Dalla rivoluzione Itc degli anni Ottanta fino all’Ai attuale, il dibattito si è prima concentrato su ricerche soprattutto relative agli Usa, poi si è esteso al mondo avanzato, ma dovendo sempre scontare data base di dubbia standardizzazione e scarsissima granularità. Il punto di forze di quest’ultimo paper è poter contare sul data base elaborato con criteri standardizzati Ocse in tema di produttività e lavoro, e ciò ha consentito agli autori una valutazione pluriennale comparata condotta per imprese, settori di attività e interdipendenze di valore e filiera. A oggi, è lo studio svolto sul più esteso e accurato data base comprendente 13 paesi (Belgio, Canada, Cile, Croazia, Finlandia, Francia, Ungheria, Italia, Giappone, Lettonia, Olanda, Portogallo e Svezia) e 22 settori di attività tra industriali e di servizi non finanziari. Una sessantina di pagine fitte, approfondimenti metodologici, dati e tabelle, i cui esiti sono un baedeker per un paese a bassa produttività come l’Italia. In sintesi estrema, che fa torto alla finezza della ricerca, emergono alcune conclusioni. Nelle imprese alla testa di filiere, quelle in grado di investire di più nell’innovazione tecnologica avanzata, l’occupazione non cala ma aumenta, perché l’effetto di minor intensità di lavoro è sopravanzato dalla necessità di aumentare gli occupati per far fronte alla maggior domanda che sui mercati si è in grado di soddisfare. E’ vero, questo significa in uno stesso settore che imprese che non hanno eguali possibilità rischiano invece di perdere manodopera. Ma al contrario quelle che riescono a procurarsi capitali di rischio e debito pur essendo piccole o medie, ottengono un risultato accresci-occupati in proporzione anche superiore alle grandi imprese. Il problema dunque è di avere policy dirette a questo fine: più pledge fund e common deal per finanziare le Pmi, invece dei tradizionali veicoli di venture capital. Che operino in una logica di filiera, in modo che chi ne sta in testa diffonda la sua innovazione anche nella catena sottostante dei suoi fornitori. E’ altrettanto vero poi che se i piccoli fornitori vivono di monocommittenza o quasi, per loro lo spill over dell’innovazione dall’alto sarà più difficile. Ma in paesi ad altissima dispersione di mark up come il nostro la risposta è aumentare e incentivare la concorrenza, in grado di pareggiare o sopravanzare l’effetto negativo delle chiusure d’imprese che non reggono il passo. E ancora: più aumentano innovazione produttività, più aumentano le retribuzioni degli occupati. Soprattutto quelle di chi ha una formazione in linea con le nuove esigenze tecnologiche, ma a cascata non solo per loro. E in ogni caso: se si mira a tutti questi effetti positivi, servono incentivi al fintech per i capitali necessari ma anche un efficace sistema di formazione permanente e replacement dei lavoratori per non lasciare nessuno indietro. I luddisti antitecnologici non hanno ragione. Ma se le politiche italiane non cambiano, non avremo né più produttività né più reddito ai lavoratori, perché non bastano poche residue grandi imprese a farci vincere.