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L'analisi

Il rallentamento cinese è strutturale. Ecco perché vuole il dialogo 

Mariarosaria Marchesano

La fuga di capitali esteri e l’autoritarismo che frena le riforme. L’impatto sull’economia globale. Parla Bruni (Ispi)

Anche a ottobre il valore dell’export cinese è calato su base annua. È il sesto mese consecutivo che l’economia cinese registra una contrazione delle esportazioni, mentre l’import sale inaspettatamente del 3 per cento. “Nei prossimi anni Xi Jinping dovrà fare i conti con la necessità sempre più pressante di trovare un nuovo modello di crescita”, dice in una breve nota l’Ispi. “In un mondo sempre più frammentato, affidare la propria crescita all’export non è più un’opzione affidabile”. Un’osservazione drastica, che il vicepresidente dell’Istituto, l’economista dell’Università Bocconi, Franco Bruni, approfondisce in un colloquio con il Foglio: “La Cina sembra Paperino quando precipita nel vuoto gambe all’aria senza fermarsi. Il paese ha bisogno di riforme e di rispettare le regole di mercato, altrimenti non potrà più crescere come ha fatto finora”. Bruni è lapidario, convinto che in questo rallentamento diventato ormai strutturale della superpotenza economica ci sia una parte di responsabilità degli Stati Uniti, che con  la loro politica commerciale aggressiva  hanno indotto la Cina a chiudersi, ma c’è anche un tema di modello di sviluppo economico arrivato al capolinea. “L’incaglio cinese è spaventoso”, dice Bruni, “perché in quel paese solo tassi di crescita molto elevati generano consenso al regime, invece, adesso si ritrovano con gli stessi problemi dell’occidente, invecchiamento della popolazione e scarsità di manodopera, senza avere alle spalle un sistema democratico e flessibile in grado di assorbire il colpo della decrescita”. Di quanto potrà rallentare la Cina nei prossimi anni? È la domanda che sta a cuore anche all’Europa, che con la Cina ha grandi relazioni commerciali. Secondo un’analisi di State Street Global Advisors, “a meno che il governo non intraprenda riforme strutturali di ampio respiro, il potenziale di crescita della Cina continuerà presumibilmente a diminuire, attestandosi ben al di sotto del 4 per cento annuo”, Insomma, il modello che ha alimentato l’ascesa del paese negli ultimi 40 anni appare sempre più impraticabile.

Le riforme di cui avrebbe bisogno la Cina per mantenere la traiettoria positiva “includono la creazione di un sistema pensionistico più generoso, un’offerta più ampia di servizi sanitari pubblici di qualità ragionevole, una riprogettazione delle finanze pubbliche (in particolare il finanziamento del governo centrale rispetto a quello locale) e una maggiore flessibilità del sistema di registrazione dei residenti (hukou)”, si legge nell’analisi di State Street. Tutti questi interventi richiedono “una revisione dell’assetto istituzionale cinese” ma in loro assenza “il paese dovrà continuare a fare affidamento su ampi surplus da esportazioni”. Non è un caso se una casa d’investimento come State Street – la quarta al mondo con oltre 4 trilioni di dollari in gestione – dedichi al “caso” cinese un ampio approfondimento. Il sentiment che si registra sui mercati finanziari, dopo il Covid e le politiche restrittive di Xi in campo economico è di nervosismo e incertezza per una fase di difficile interpretazione per il mondo degli investitori internazionali. “Da tempo la Cina sta registrando una fuga di capitali esteri che negli ultimi tempi si è accentuata”, dice Bruni. “Quello in cui gli investitori non hanno abbastanza fiducia è un modello di crescita che dipende dal surplus delle esportazioni, ma questa è una regola che, come abbiamo imparato, vale per tutti. La ricchezza di un paese non può dipendere dal commercio con l’estero perché così si espone alle tensioni geopolitiche che sono in costante crescita, mentre è importante stimolare i consumi interni. Ovviamente, la classe politica cinese è più che consapevole di tutto questo e non escludo che un cambio nell’assetto istituzionale possa avvenire proprio per salvaguardare la crescita economica”. Con o senza Xi Jinping, al quale “i grandi vecchi” del Partito comunista hanno già rimproverato l’impoverimento della nazione? “Se avverrà un cambiamento politico, sarà nella squadra che sostiene Xi, ma che lui resterà al suo posto”. E se questa svolta non dovesse avvenire, come si ripercuoterà la decrescita cinese sull’Europa? “L’impatto potrebbe essere rilevante, anche se io non credo troppo nella Cina quale motore dell’economia globale. Direi, che questa è una visione ‘idraulica’ della crescita, cioè che da qualche parte ci debba per forza essere una pompa che alimenta la domanda, mentre noi europei dovremmo concentrarci nel migliorare la qualità dell’offerta”.
 

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