l'analisi
Sorpresa: a Piazza Affari comandano i piccoli capitali
Oltre il delisting c’è di più. Un'indagine su un nuovo motore della Borsa italiana: numeri, storie e futuro
Era il 1994 quando il parterre di Piazza Affari, la vecchia sala delle “grida” degli agenti di cambio, lasciava il posto alla contrattazione telematica. Ma da anni quest’ultima avviene nelle sale operative di banche e società d’intermediazione mobiliare e così il parterre di Palazzo Mezzanotte, inaugurato nel 1932 come nuova sede della Borsa Valori di Milano all’epoca piena espansione, si è trasformato in uno dei centri congressi più esclusivi della città. È, però, un luogo fortemente simbolico e la cena di gala che ha ospitato mercoledì sera 190 piccoli imprenditori in doppiopetto scuro che discutevano di economia, di mercati e di governo (ospite sul palco, Ferruccio De Bortoli) è un segnale di come sta cambiando il capitalismo italiano: i grandi gruppi lasciano la Borsa e trovano altre strade per finanziare i loro progetti e imprese che al massimo fatturano 50 milioni si quotano numerose e vogliono sentirsi protagoniste di quel mondo. Gli stessi capi azienda che un tempo facevano la coda fuori dagli uffici dei banchieri adesso si fanno finanziare dal mercato azionario, capendo che può essere un’alternativa al caro tassi. Un fenomeno che il governo Meloni ha intercettato e cercato di assecondare inserendo nel Ddl capitali (la cui approvazione è attesa entro quest’anno) norme per semplificare l’accesso alla Borsa, ma, soprattutto, per garantire alle imprese familiari, grazie al voto plurimo, di non perdere il controllo.
La “presa” di Palazzo Mezzanotte da parte dei piccoli capitalisti è avvenuta negli ultimi quindici anni a cavallo tra la proprietà inglese di Borsa italiana, il London Stock Exchange, e quell’attuale di stampo francese-panaeuropeo di Euronext. Anche se, a dire il vero, porta il marchio inglese il regolamento che nel 2008 ha dato vita in Italia al mercato delle piccole quotate, l’Aim poi ribattezzato Egm (Euronext growth Milan). Era l’inizio della grande crisi finanziaria globale e le quotazioni delle grandi imprese scarseggiavano, come oggi del resto, con la differenza che la febbre da “delisting” non aveva ancora colpito Borsa italiana. La nascita dell’Aim punta a un target nuovo, tra start up e attività di nicchia, e segna un momento di svolta: in 15 anni si quotano 290 aziende, ridotte oggi a poco più di 200 solo perché, nel frattempo, in tante sono passate al listino principale o perché hanno ricevuto offerte d’acquisto da parte di fondi d’investimento o sono state assorbite da multinazionali. Come in tutte le cose, c’è chi ci ha creduto da subito nelle potenzialità dell’Aim-Egm, che la grande finanza, almeno all’inizio ha snobbato. Imprenditori, advisor, avvocati, revisori, investor relations, società di comunicazione, c’erano proprio tutti mercoledì sera i nomi che questo mercato l’hanno fatto nascere e crescere e adesso si prendono la rivincita. Da Alantra ad Akros, da Equita e Intermonte, da Finnat a Profilo, da Cfo a Envent, da Illimty e Integrae. “Manca Mediobanca, ma mai dire mai”, ha esclamato con una battuta Giovanni Natali, presidente di Assonext, promotore dell’evento e mattatore della serata degli Awards dell’Egm. A latere con il Foglio, Natali, fresco di nomina nel comitato degli operatori di mercato e degli investitori, istituito da Consob, accetta di fare una riflessione. “Non sono tutte rose e fiori – dice – con tutte le tensioni a cui sono sottoposti i mercati finanziari, è un anno drammatico dal punto di vista della liquidità. E poi ci sono state alcune promesse tradite, come quelle dei fondi Pir, che hanno raccolto i risparmi degli italiani: su 19 miliardi investiti su asset finanziari e società quotate solo 230 milioni sono andati a finanziare le piccole aziende che sono l’unico motore che alimenta il mercato borsistico italiano”.
Il Ddl Capitali sarà utile in questo senso? “Il Ddl Capitali rappresenta una riforma vera e propria e darà un forte contributo in termini di semplificazione burocratica, ma il governo dovrebbe fare uno sforzo ulteriore promuovendo nuovi strumenti di finanziamento per sostenere la crescita di queste imprese, come un fondo a capitale pubblico”. Insomma, se si svuole provare a trasformare i piccoli imprenditori di oggi nei grandi capitalisti di domani c’è bisogno di un atto di coraggio da parte della politica, come spiega anche Anna Lambiase, che è stata uno dei pionieri dell’Egm con la sua società di consulenza Ir Top Consulting, percorso che ha contribuito alla sua recente nomina a presidente di Cdp Venture Capital Sgr. “Ci troviamo di fronte a una realtà di fatto: in Italia esiste un tessuto imprenditoriale fatto di eccellenze che sta provando a fare un salto dimensionale, ma andrebbe incoraggiato. Il credito d’imposta per le quotazioni è molto utile, e anzi, andrebbe stabilizzato, ma da solo non è sufficiente. Quello che andrebbe fatto è stimolare i grandi investitori istituzionali del paese, come le assicurazioni e le casse di previdenza, ad affiancare lo sviluppo delle piccole aziende. Bisogna cogliere questo momento propizio per alimentare il percorso verso il mercato dei capitali, non parlo solo della quotazione ma anche di operazioni sul mercato secondario, che supportano poi lo sviluppo delle società. Se vogliamo davvero che in Italia nasca un nuovo capitalismo dal basso bisogna crederci incentivando anche il Sud del paese a partecipare”. Lambiase cita anche un dato che la dice lunga su come il listino delle piccole aziende in questi anni abbia fornito carburante all’intero circuito borsistico: “grazie ai translisting – dice – ben 10 miliardi di capitalizzazione sono passati dall’Egm al listino principale, che nel frattempo ha perso terreno. È naturale perché le piccole man mano che sono diventate grandi hanno fatto il salto, ma è anche la prova che esiste un dinamismo utile per la crescita del paese”.
Basta guardare ai flussi in entrata e in uscita da Piazza Affari analizzati da Ambromobiliare, amministrata da Corinne Zur Nedden, per rendersi conto delle dimensioni del fenomeno. Nel periodo gennaio 2020-settembre 2023 sono 70 le società uscite dalla Borsa, con una perdita complessiva di 68 miliardi di capitalizzazione. Nello stesso periodo, quelle che si sono quotate sono 128 apportando al mercato 23 miliardi di capitalizzazione. “C’è un dato oggettivo che implica una riflessione – dice Zur Nedden - l’unico segmento di Borsa che presenta un saldo positivo è l’Egm, che ha visto molte più quotazioni che delisting. E’ chiaro che c’è uno sbilanciamento in termini di valori di mercato perché escono grandi imprese ed entrano piccole, ma proprio per questo il sistema paese deve favorire nuovi ingressi coinvolgendo tutte le aree del paese e, soprattutto, deve poi favorirne la crescita dimensionale”. Dal canto suo, Borsa italiana, di proprietà del gruppo Euronext, cerca per ovvi motivi di essere neutrale in questo processo favorendo la partecipazione più ampia possibile dell’economia del paese ai vari segmenti come spiega Barbara Lunghi, responsabile dei mercati primari. Ma ha anche capito che assecondare il dinamismo dei piccoli capitalisti è l’unico modo per controbilanciare la fuga delle grandi aprendo una nuova fase, che può essere un modello in Europa.