l'analisi
La sostenibilità del debito e gli obiettivi ragionevoli del governo
Sbaglia mira chi si limita a valutare la limitata riduzione del rapporto fra debito e prodotto prevista dall’esecutivo per il prossimo triennio senza tenere adeguatamente conto della traiettoria prevista per l’avanzo primario nello stesso triennio. L'importanza di arrivare a una buona riforma del Patto di stabilità
Le tre principali agenzie di rating hanno confermato il loro giudizio sul debito pubblico italiano. Una - Moody’s – indicando anche una prospettiva in miglioramento. Lo spread BTP-Bund, dopo aver toccato i 210 punti base all’inizio di ottobre, veleggia comunque oggi poco sopra i 170 punti base e cioè su valori anche inferiori a quelli osservati prima della presentazione della Nota di aggiornamento al Documento di Economia e Finanza. Come avevamo già previsto su queste colonne, i mercati – diversamente da molti opinionisti – hanno ritenuto ragionevolmente prudente l’atteggiamento dell’esecutivo e rassicuranti, almeno per il momento, le iniziative concrete assunte, ad esempio, sul fronte delle privatizzazioni.
Per comprendere questo atteggiamento è necessario capire che dimensione del rapporto fra debito pubblico e prodotto interno lordo e sostenibilità dello stesso non sono sinonimi. Condizioni di incertezza finanziaria sono legate al secondo concetto assai più che al primo (e, più precisamente, alla probabilità della insostenibilità del debito). Certo, la sostenibilità del debito può, indirettamente, essere influenzata dal livello del debito ma – per ogni data configurazione di costo del debito e di crescita – essa ha a che fare in primo luogo con la entità degli avanzi primari necessari per sostenere determinati volumi di debito. Detto in altri termini, in astratto qualunque livello di debito diventa sostenibile se la reazione del disavanzo primario è tale da garantirne la stabilizzazione. L’attenzione deve quindi spostarsi dal livello del rapporto fra debito pubblico e prodotto alla velocità di aggiustamento dell’avanzo o disavanzo primario rispetto al debito pubblico. Naturalmente, non è detto che la necessaria risposta dell’avanzo primario sia sempre e comunque conseguibile (ad esempio, il livello del rapporto fra debito pubblico e prodotto interno lordo potrebbe essere talmente elevato da renderla, politicamente, non praticabile).
Sbaglia mira, in altre parole, chi si limita a valutare la limitata riduzione del rapporto fra debito e prodotto prevista dall’esecutivo per il prossimo triennio (inquinata peraltro dagli impatti dei crediti d’imposta edilizi) senza tenere adeguatamente conto della traiettoria prevista per l’avanzo primario nello stesso triennio (e Moody’s, forse più di altri, ha colto il punto). Una traiettoria che prevede un incremento dell’avanzo primario pari a circa tre punti percentuali nel triennio: decuplo rispetto a quanto era stato previsto nel 2019 e sensibilmente superiore a quello previsto nel 2022. Se ci si basa sul passato per cercare di leggere il futuro e se ci si limita alle tendenze di medio-lungo periodo è immediato concludere che, dopo aver sfiorato pericolosamente l’area di instabilità del debito intorno al 2011-2012 ed essersene solo marginalmente allontanata nel decennio successivo, l’Italia – grazie anche alla tassa da inflazione – viaggia oggi su livelli di sostenibilità del debito non diversi da quelli sperimentati negli ultimi anni del secolo scorso. Dopodiché si potrà dubitare della capacità dell’esecutivo attuale di porre in atto i suoi programmi ma non si dovrebbe dubitare della ragionevole adeguatezza di questi ultimi, tanto più se rapportata a quanto accaduto nel recente passato. Pochi hanno notato come il principale obbiettivo della ultima Nota di aggiornamento al Documento di Economia e Finanza stia nella scelta di mantenere inalterate in termini nominali per un triennio le principali voci di spesa pubblica. Un obbiettivo molto sfidante indubbiamente. Ma anche un obbiettivo ragionevole, più di quanto non sembri: riportare nel giro di un triennio la struttura del bilancio pubblico verso la configurazione presente prima dell’emergenza pandemica (con la sola ovvia, purtroppo, eccezione della spesa pensionistica), tenendo conto di un peso crescente della spesa per interessi.
Ritornando al tema del debito, è dunque del tutto comprensibile nella prospettiva discussa in precedenza che, nel contesto della discussione sulla revisione delle regole fiscali europee, la Germania abbia chiesto che si prevedano limiti inferiori alla entità dell’aggiustamento tanto del rapporto fra debito e prodotto quanto del rapporto fra avanzo primario e prodotto. Non sembra essere insensato domandarsi, in questo quadro, se conviene all’Italia (ed all’Europa) la irragionevole e pericolosa discrezionalità affidata dalla proposta in discussione ad un organo privo di legittimità politica o se non sarebbe piuttosto preferibile una soluzione basata sui suddetti limiti inferiori associata ad un periodo di transizione legato alle scadenze del Pnrr e ad un trattamento differenziato delle spese connesse a tematiche di dimensione schiettamente europea: la difesa, ad esempio, e le politiche migratorie.
Certo, i molti limiti della proposta in discussione e dunque la sua intrinseca debolezza fanno sì che la probabilità di un accordo resti molto elevata: ognuno dei contraenti essendo convinto di poter piegare in qualche modo a suo vantaggio quella debolezza. Come è già accaduto in passato (l’esempio più straordinario essendo la riscrittura o, per meglio dire, lo svuotamento dell’art. 81 della nostra Costituzione da parte, si noti, del più tecnico dei governi nel più assoluto silenzio della Commissione europea). Ma è lecito domandarsi se a pagare il prezzo di un accordo come quello che si prospetta non sarà l’Europa tutta condannata a immaginare regole destinate a non essere applicate o ad esserlo a seconda delle circostanze e dei rapporti di forza – tanto più con l’allargamento in vista – fino a quando non darà a se stessa un orizzonte schiettamente politico.