(foto Ansa)

dopo l'ultima mobilitazione

Scioperi del venerdì, deriva di un sindacalismo fallito

Dario Di Vico

Una tendenza nata dai Cobas ed estesa alle confederazioni nazionali. Risultato: tanti disagi, zero accordi

Senza voler entrare nella ragnatela dei dati diffusi sulla partecipazione dei lavoratori, dopo venerdì 17 novembre possiamo sdoganare il concetto di sciopero generale di minoranza. A qualcuno, giustamente, potrà apparire come un ossimoro ma occorre fare i conti con questa trasformazione della lotta e della cultura politico-sindacale, altrimenti si rimane nell’ombra e si finisce per assistere alle dichiarazioni di Matteo Salvini e Maurizio Landini come lo spettatore di una partita di tennis, girando il collo una volta di qua e l’altra di là. Il concetto di sciopero generale di minoranza ci induce, se non obbliga, a rivisitare la stessa vecchia nozione di parti sociali che sicuramente nel tempo si è logorata.

 

Sia chiaro, l’Italia è lunga e larga e la rappresentanza sia dei lavoratori sia dei datori di lavoro è presente capillarmente e vanta un robusto insediamento nei territori. Da sola la Cgil fa circa 5 milioni di tesserati, la Cisl quattro, la Confindustria organizza 150 mila imprese. Insomma i numeri delle adesioni “formali” tengono. E infatti dal punto di vista delle risorse umane le parti sociali possono contare su robusti eserciti di permanenti e usufruire di distacchi e permessi per garantire l’attività ordinaria. Quindi attenti a dire che le parti sociali sono tramontate. La verità è un’altra: hanno tradito il loro ruolo che dovrebbe essere sussidiario e orientato alla ricerca di soluzioni attraverso negoziati e accordi. Le parti sociali dovrebbero far parte della società civile e invece si muovono spesso come frazioni della società politica. Da qui un’efficacia assai ridotta rispetto al governo delle trasformazioni reali, il prevalere di riti organizzativi, una certa difficoltà nel ricambio dei gruppi dirigenti, una democrazia interna che spesso lascia a desiderare. Ma, ripeto, soprattutto un venir meno alla loro funzione intermedia, quella di affrontare problemi e creare soluzioni condivise. Solo così le parti sociali apportano sangue fresco alla democrazia e non certo perché partecipano al rito delle audizioni parlamentari. Parti sociali più responsabilizzate dovrebbero moltiplicare gli accordi, le sedi di confronto e per questa via favorire l’innovazione sociale oltre che aiutare la politica “smazzando” in anticipo convergenze e conflitti.

 

Invece già quando uno sciopero, venduto come generale, viene indetto da due delle tre principali confederazioni il sindacato viene meno alla sua vocazione maggioritaria, tradisce la sua orizzontalità, circoscrive un ambito di rappresentanza che dovrebbe essere universalistico. E, come non bastasse, nella circostanza degli scioperi del novembre ’23 è affiorato anche il rischio di uno sposalizio tra questa curvatura minoritaria e la cultura del sindacalismo del venerdì. La pratica degli scioperi strategicamente collocati nell’ultimo giorno della settimana lavorativa è made in Cobas e vige da almeno 15 anni. Si tratta di un fenomeno ampiamente sottovalutato e al quale spesso i sindacali confederali dei trasporti si sono accodati e i datori di lavoro si sono acconciati più o meno opportunisticamente. Persino i media hanno fatto il loro dirty job presentando di fatto gli scioperi della mobilità del venerdì quasi come una calamità naturale, qualcosa che non si può combattere e del quale tutt’al più si possono contenere gli effetti a spiovere. In questi venerdì del disagio gli utenti vengono trattati come carne da macello, i sindacati non illustrano loro mai le ragioni dell’agitazione, non si vede manco a pagarlo un volantino diffuso alle fermate degli autobus o all’ingresso delle stazioni e i viaggiatori come rari nantes in gurgite vasto si muovono sulla base della tradizione orale (“laggiù ho visto il 90 che andava”). Ma gli utenti-consumatori non dovevano essere i re della società dei servizi?

 

Da un punto di vista squisitamente sindacale possiamo concludere che il sindacalismo del venerdì segna l’affermarsi di una cultura giacobina che dai Cobas si trasferisce alle confederazioni. Pochi decidono, giocano abilmente sull’effetto annuncio e gettano sul piatto della bilancia il peso di una minoranza che riesce comunque a bloccare la mobilità delle grandi città e dare un segno di paralisi. Ma è evidente che non è questa la funzione della rappresentanza anche in un settore particolare come quello dei trasporti con controparti estremamente deboli e incapaci di predisporre corrette e trasparenti relazioni industriali. Purtroppo però è questa la deriva che sta dietro l’uso calcolato del venerdì e gli scioperi di minoranza ed è l’eredità che ci lasceranno, volenti e nolenti, le agitazioni di questo novembre. Marco Bentivogli ha giustamente parlato di francesizzazione con riferimento a una storia sindacale come quella transalpina fatta da minoranze e con un radicamento molto ridotto rispetto alla tradizione italiana. Fin quando è possibile sarebbe meglio evitare di mettersi su quel sentiero.

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