L'analisi
Le nuova cooperazione industriale Italia-Germania fa bene all'Ue
L'accordo tra Scholz e Meloni non nasce da retroscena politici: le prime due manifatture europee avevano deciso da un anno di spingere a una cooperazione nuova che ha proprio sull'industria il punto di maggiore novità
C’è un aspetto comune sfuggito ai più, nei recenti voti al Parlamento europeo che hanno dilazionato le scadenze applicative dello standard euro 7 per i veicoli leggeri e pesanti, raddrizzato l’impostazione iniziale sul packaging, che promuoveva solo il riuso e non riciclo dei materiali, nonché sull’intesa di cooperazione rafforzata italo-tedesca firmata a Berlino dal cancelliere Scholz e dal presidente del Consiglio Meloni. Dietro ciascuno di questi sviluppi c’è stato un fortissimo impegno coordinato che le Confindustrie di Italia, Germania e Francia hanno deciso di esercitare sui diversi gruppi politici nazionali ed europei. Sui rischi di Euro 7 come sul packaging, i pareri contrari erano comuni e figli di mesi e mesi di confronti riservati. Allo stesso modo, l’intesa italo-tedesca non nasce dai presunti retroscena politici, e cioè le difficoltà tedesche di bilancio dovuti alla bocciatura dei fondi speciali da parte della Corte di Karlsruhe, o il tentativo italiano di far breccia nel no reciso del ministro Lindner a qualunque nuovo Patto di stabilità che non enunci una cifra minima annuale di riduzione del debito per i paesi iper-indebitati. Anche in questo caso, infatti, le prime due manifatture europee, tedesca e italiana, avevano convenuto da un anno di esercitare una decisa pressione sui propri governi per spingerli a una cooperazione nuova che ha proprio su industria e manifattura, nuove tecnologie e investimenti su filiere comuni il suo vero punto di novità. Sempre che ora sia Roma sia Berlino comprendano che, dopo la firma, occorre mettere mano a un segretariato congiunto che sia motore delle nuove esperienze comuni da varare nell’automotive come nella difesa, nelle batterie come sui microprocessori, nella chimico-farmaceutica e nell’aerospaziale come sulle materie prime.
È dai tempi del fermo di produzione per il Covid che l’industria tedesca iniziò a segnalare al proprio governo l’allarme per una possibile frattura delle catene del valore e fornitura in cui si realizza l’interdipendenza manifatturiera italo-tedesca. Da allora, l’esplosione dei costi energetici e la penuria di input di produzione, il riaccentramento della Cina su sé stessa, la grande gara mondiale con trilioni di dollari pluriennalmente stanziati da Cina e Usa per incentivare investimenti sulle tecnologie più avanzate, tutto ciò ha costantemente alzato il livello del possibile decoupling tra le manifatture di Italia e Germania. E quella tedesca si trova anche spiazzata dal fatto che l’industria italiana ha un diverso mix di export, molto più proteso agli Usa che continuano a correre, piuttosto che all’Asia in frenata dietro la Cina. Non è solo la cifra globale dell’interscambio tra le due economie a descrivere l’interdipendenza, 168,5 miliardi di euro nel 2022 rispetto ai 128 del 2019 pre pandemia. Oltre metà di questa cifra è tra settori manifatturieri, nel 2022 31,7 miliardi nel chimico-farmaceutico, 24,8 nella siderurgia, 22 miliardi nell’automotive, 21 nei macchinari. Il timore del decoupling è reciproco. Nelle indagini a campione realizzati da Confindustria e BDI sulle proprie imprese, la media bilanciata vede il 48 per cento temere un calo della domanda reciproca, il 30 per cento teme nei prossimi mesi alterazioni dei rapporti di fornitura, il 76 per cento ritiene che i rapporto di interdipendenza vada salvaguardato al netto dei margini di bilancio e politica dei rispettivi governi, mentre il 5 per cento spinge perché i governi di Roma e Berlino capiscano che se per le diverse politiche di bilancio si altereranno oltre misura i fattori di costo a carico delle partner o fornitrici italiane, l’effetto sarà una perdita di valore anche per la parte alta tedesca delle filiere. Di conseguenza la richiesta ai due governi: varate una cornice che dia vita sulle frontiere più avanzate e nelle filiere più interdipendenti a progetti comuni, che chiedano alle stesse imprese di impegnarsi finanziariamente, in cambio di un rafforzamento di standard comuni tecnologici, organizzativi e operativi. Numerose grandi imprese tedesche e italiane sono pronte a fare la propria parte, se questi progetti nasceranno presto e bene. Nei documenti congiunti delle Confindustrie si giunge a dire che la carenza di qualifiche avanzate, che frena la manifattura tedesca come quella italiana, richiederebbe progetti comuni anche nel settore del training avanzato comune, individuato per filiera. In sintesi, se l’Europa dopo le prossime europee non capisce che occorrono risorse e strumenti adeguati per raccogliere la sfida continentale di Usa e Cina, le maggiori manifatture Ue credono che almeno sia necessario un percorso paneuropeo di cooperazione dal basso. In tempi di pessimismo, speriamo la politica capisca che l’ottimizzazione di scala di investimenti congiunti pubblico-privati offre più speranza delle politiche industriali stataliste, che credono di insegnare dall’alto il mestiere alle imprese.