guai in vista
L'effetto "palla di neve" che rischia di travolgere il governo Meloni
Agli elettori dice che è l'ultima manovra di austerità, mentre all'Europa promette una stretta senza precedenti. Con il costo del debito superiore alla crescita (snowball effect) per Giorgia e Giorgetti il sentiero è più stretto di quello di Renzi e Padoan
A destra c’è una sorta di dissonanza cognitiva a proposito della sua politica di bilancio. Il governo dice pubblicamente di avere un “piano di legislatura” per realizzare il suo programma, ovvero tutte le promesse elettorali finora accantonate. Ma nei suoi documenti ufficiali sostiene che nei prossimi anni ci sarà sempre meno spazio per politiche espansive.
In sostanza, il governo agli elettori fa capire che questa è stata l’ultima manovra di “austerità” dovuta alle criticità geopolitiche internazionali, mentre all’Europa e ai mercati promette che con la prossima manovra inizierà il percorso “austerità” a cui l’Italia è costretta dalle criticità sul suo debito. E’ evidente che c’è una contraddizione in termini tra le due narrazioni, che è soprattutto un’incompatibilità politica, che andrà sciolta.
Se insomma, gli elettori hanno votato la destra per avere la flat tax e la controriforma delle pensioni, ovvero una riduzione delle tasse e un aumento della spesa, la fiducia che i mercati (si pensi ai recenti giudizi delle agenzie di rating) e le istituzioni europei hanno dato al governo si basa su presupposti opposti: un forte aggiustamento fiscale per rendere sostenibile il debito pubblico. “Nella Nadef il governo Meloni si è impegnato a raggiungere un surplus primario sopra il 3 per cento del pil nei prossimi 3-4 anni – ha scritto l’economista Lorenzo Bini Smaghi in un’analisi per l’Institute for european policymaking dell’Università Bocconi – Una manovra restrittiva di questo tipo non ha precedenti storici”.
E’ come se le forze di governo, con la probabile eccezione del ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, non vedessero arrivare una palla di neve che rischia di trasformare il debito pubblico in una valanga. L’“effetto palla di neve” si verifica quando il costo degli interessi sul debito pubblico è superiore al tasso di crescita nominale del pil (inflazione più crescita reale): in tal caso il debito pubblico aumenta automaticamente. A meno che non ci sia un bilancio primario in avanzo per contrastare questo effetto.
Negli ultimi due anni, la forte fiammata inflattiva ha contribuito a ridurre il debito pubblico, ma con la progressiva riduzione dell’inflazione e l’aumento dei tassi di interesse l’effetto palla di neve sta tornando a essere positivo. Come lo è stato a lungo negli ultimi due decenni in Italia, costringendo un paese che ha una crescita bassa ad avere consistenti avanzi primari per stabilizzare il debito.
Con la crescita del pil nominale che scende e una spesa per interessi destinata a salire dal 3,8 per cento del pil nel 2023 al 4,6 per cento nel 2026, il governo è costretto ad aggiustare il bilancio se non vuole far crescere un debito che è al 140 per cento. E’ costretto, insomma, a quella “stretta senza precedenti” di cui parla Bini Smaghi, promessa alla Commissione europea, per portare il saldo primario da un deficit dell’1,5 per cento nel 2023 a un surplus dell’1,6 per cento nel 2026 per poi arrivare al 3 per cento nel 2027. Oltre 1 punto di pil annuo di aggiustamento fiscale. Ma è un percorso politicamente sostenibile per la destra e quindi economicamente credibile per i mercati?
Al momento prevale l’apertura di credito, ma nessun assegno in bianco. Bruxelles, ad esempio, già non crede agli impegni per il 2025 visto che considera prorogati i tagli di tasse annuali (decontribuzione) che invece sulla carta dovrebbero valere solo per il 2024. Pertanto la Commissione europea vede un debito pubblico in crescita, a differenza della stabilizzazione certificata dal Mef nella Nadef e nel Dpb. Certo, il ministro Giorgetti dopo le elezioni europee avrebbe il tempo per poter impostare una politica fiscale pluriennale che guardi alla fine della legislatura nel 2027, abbandonando l’orizzonte annuale delle prime due leggi di bilancio. E’ anche quello che sperano i mercati.
Ma non è affatto detto che sia così. Soprattutto se verrà approvata la riforma costituzionale che avrà come sbocco un referendum nel 2026. A quel punto, sarà come avere un’elezione generale con un anno di anticipo. E vuol dire che il governo dovrà impostare due manovre pre-elettorali, quella del 2025 prima del referendum e quella del 2026 prima delle elezioni politiche, che sono politicamente incompatibili con una politica fiscale così restrittiva come indicato nella Nadef.
Il ciclo politico-elettorale che Meloni ha davanti è lo stesso, dieci anni dopo, che aveva Matteo Renzi: europee nel 2014, referendum costituzionale nel 2016, elezioni politiche circa un anno dopo. La differenza è che il ciclo economico allora era molto più favorevole: al governo Renzi bastava mantenere un avanzo primario costante, promettendo l’aggiustamento al futuro, per vedere il debito scendere leggermente.
Era il “sentiero stretto” di Pier Carlo Padoan, ovvero la formula usata dall’allora ministro dell’Economia per descrivere il percorso angusto per coniugare sostegno alla crescita e sostenibilità del debito pubblico. E non è stato sufficiente a vincere né il referendum né le elezioni. Il problema del governo Meloni è che il sentiero di Giorgetti molto più stretto, e c’è anche il rischio dell’effetto della palla di neve.
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