I dati
Combattere le balle sul consumo del suolo si può. Qualche antidoto
Una politica seria cerca di ottimizzare gli spazi che ha cercando di conciliare lo sviluppo urbano con la riduzione del consumo di suolo senza battaglie ideologiche. In passato è stato fatto
Il consumo di suolo è un problema grave e c’è una larga convergenza sul fatto che vada ridotto, possibilmente fino a zero. Qualche dato meno urlato degli allarmi periodici che sul tema vengono lanciati da ambientalisti e da Ispra aiuta, però, non solo a capire meglio le tendenze vere, che su questo tema sono di medio-lungo periodo, ma anche a guardare dentro il fenomeno e a elaborare politiche “lunghe” di contrasto. Nel periodo 1960-1990 il consumo di suolo medio annuo era di 240 kmq, saliti nell’ultimo decennio del secolo scorso a 280 kmq annui, poi scesi nel primo decennio del XXI secolo a 210 kmq e attestatisi negli ultimi otto anni intorno ai 60 kmq. L’ultimo Rapporto Ispra dice che nel 2022 si è registrata una crescita a 71 kmq e una certa dose di attenzione questo dato la richiede. Nulla toglie, però, a una tendenza in atto che va accelerata, ma intanto c’è: in un decennio il consumo di suolo si è ridotto di oltre due terzi. Quando ci sono dati positivi non vanno nascosti, ma valorizzati, insieme alle politiche che li hanno prodotti.
Guardiamo dentro i dati. Anzitutto il 25 per cento di questo consumo non sappiamo cosa sia: non classificato. Per la parte restante il 53 per cento è consumo di suolo reversibile e solo il 47 per cento è consumo di suolo permanente. Il consumo reversibile è in gran parte relativo a cantieri temporanei oppure ad aree in terra battuta. Qui c’è una prima questione interessante per chi volesse davvero costruire delle politiche attive del territorio: il consumo netto di suolo nel 2022 è dato da 76,8 kmq di consumo lordo cui si sottrae il ripristino di aree naturali di soli 6 kmq. Ripristinare più aree consumate temporaneamente ed evitare che diventino permanenti può essere una politica strutturale che oggi non c’è. Potrebbe andare di pari passo con la politica di riforestazione e piantumazione di alberi (anche nelle aree urbane) per cui abbiamo avuto un primo assaggio, deludente quanto a capacità attuativa, nel PNRR.
Un altro dato, che oggi sarà rilanciato dalla presentazione del Rapporto Ance-Cresme sul dissesto idrogeologico, evidenzia chi consuma suolo. Se si escludono i cantieri temporanei, che fanno il 25 per cento del totale, al primo posto per consumo di suolo ci sono le infrastrutture con il 17 per cento del totale. Una sorpresa, forse, ottenuta sommando vari dati spezzettati nel Rapporto Ispra ma che pongono una seconda questione di politica del territorio. Possiamo rinunciare a realizzare infrastrutture che sono una delle grande priorità del Paese per dargli efficienza? Certamente no. Possiamo renderle più sostenibili, come ha cercato di fare l’ex ministro Giovannini, riducendo il consumo di suolo, ripristinando i luoghi, usando materiali green che si stanno diffondendo sempre più.
Anche il dato successivo è una sorpresa. Il 12 per cento del consumo di suolo è dovuto agli impianti fotovoltaici a terra. Vale la stessa considerazione fatta per le infrastrutture: ci sono differenti priorità nel Paese, non conta solo metterle in fila per decidere quale sia più importante, magari continuando con guerre ideologiche. Una politica seria si sforza di conciliarle e oggi sono molti i territori che lo hanno capito e cercano di rendere sostenibili le loro politiche senza sacrificare lo sviluppo.
Qui veniamo al punto finale. Gli edifici e i fabbricati sono soltanto il 15,9 per cento del suolo costruito. Eppure molto si può fare per ridurre questo dato. Parliamo di città e il bivio ci si ripropone più tagliente che mai. Adottiamo una politica difensiva che ferma il consumo del suolo e, insieme a questo, blocca anche lo sviluppo? O cerchiamo politiche, nazionali prima che locali, che spingano lo sviluppo – cioè diano risposte alle domande e ai bisogni dei cittadini e delle imprese – azzerando o riducendo al contempo il consumo di suolo? La seconda strada è l’unica percorribile e anche l’unica in grado di aggregare un ampio consenso: si chiama rigenerazione urbana, de-impermeabilizzazione, densificazione. Nella scorsa legislatura tutte le forze politiche avevano trovato un accordo su un testo di legge di rigenerazione urbana che sarebbe stato un ottimo inizio. Tardivo, ma ottimo. Quando il Senato era pronto per vararla, dopo mesi di confronti e mediazioni, la Ragioneria generale inviò un parere sul testo di una severità del tutto inusuale. Non si limitava a bocciare il fondo nazionale che lì veniva istituito per sostenere lo sforzo locale. Diceva che quella legge non si poteva fare. Il Senato ha ripreso ora l’esame di quel testo. Il ministro Salvini giura che il governo non farà mancare il proprio sostegno.