L'intervista
La pianificazione strategica che manca all'azienda Italia
Infrastrutture, turismo, re-shoring: la lezione americana e olandese. Parla Stefano Simontacchi, esperto di fisco, governance e finanza internazionale già consulente del governo Draghi
Il rimpatrio delle imprese, il rientro dei lavoratori, il golden power, una governance che limiti le public company, le “aziende di nessuno” come le chiamò Bruno Visentini. Governo e parlamento italiano moltiplicano decreti, disegni, progetti di legge che di riffe o di raffe mettono in discussione la globalizzazione se non proprio i cardini del libero mercato, usando incentivi pagati dai contribuenti. Chiamatela re-shoring, near-shoring, back-shoring, accorciamento della catena del valore, globalizzazione tra amici, comunque sia, sta prevalendo il paradigma della “economia patriottica”. Il processo era in corso già da anni e anche in Italia molte aziende soprattutto tessili e dell’abbigliamento stavano chiudendo fabbriche all’estero per riaprirle vicino a casa. Provvedimenti per sostenere questa tendenza difensiva erano stati messi in campo prima del Covid-19. Ma la pandemia, l’invasione russa dell’Ucraina e adesso il conflitto a Gaza, più intelligenza artificiale, chip, computer quantico (il che ci porta alla sfida cinese), hanno fatto da spartiacque, sottolinea al Foglio Stefano Simontacchi.
Presidente dello studio Bonelli Erede, esperto di fisco, governance e finanza internazionale, consigliere di amministrazione di Rcs, presidente della Fondazione dell’ospedale Buzzi dei bambini, Simontacchi è stato membro della commissione Colao e consulente del governo Draghi. Da vari anni ha proposto ripetutamente un progetto di legge sul re-shoring che in parte è stato recepito nella proposta del governo. “La delocalizzazione è un problema strategico, tuttavia occorre favorire gli investimenti che accrescono valore, non si può far rientrare qualsiasi azienda purché italiana, gli incentivi vanno dati a chi produce reddito e all’innovazione. Ciò vale anche per gli italiani che vogliono espandere le loro attività in patria. Ma prima dobbiamo capire quali sono i nostri obiettivi, poi scegliamo gli strumenti. Cosa sarà l’Italia di qui a vent’anni? Qual è la visione di lungo termine del governo? E intendo la prospettiva e le linee guida che restano anche se cambiano le maggioranze politiche. Quel che manca, insomma, è una pianificazione strategica. A livello europeo ci sono visioni che spesso non si riescono a tradurre in azioni competitivamente efficaci, in Italia manca da anni la visione stessa”.
Simontacchi non ha certo in mente il Gosplan, al contrario pensa agli Stati Uniti; ragiona all’americana anche se il suo cuore batte in Olanda dove ha studiato e insegnato. La superpotenza globale e il piccolo paese europeo che ha strappato al mare la sua sopravvivenza, guardano entrambi al lungo periodo. Simontacchi racconta un aneddoto sulla città nella quale ha studiato e insegnato: Leida. Tra il 1573 e il 1575 resistette all’assedio spagnolo imposto da Filippo II. Come ricompensa Guglielmo I d’Orange offrì ai cittadini una scelta: o non pagare tasse per il resto della loro vita o fondare una università. Scelsero l’università che divenne una delle più apprezzate in Europa e ancor oggi punto di riferimento per gli studi giuridici. In fondo è una variante del vecchio detto liberale: meglio insegnare a pescare che regalare un pesce. Ma quali sono oggi le canne da pesca? A questo punto entrano in campo gli Stati Uniti e il modello fiscale che ha contribuito per lungo tempo a stabilire un vantaggio delle imprese americane: accumulare profitti all’estero senza pagare imposte negli Usa finché i guadagni non vengono fatti rientrare. Un meccanismo che ha portato persino a indebitarsi per distribuire dividendi pur avendo molto denaro in cassa. Ora viene rimesso in discussione ovunque: diventa il tema conduttore dei G8 e dei G20, è il bersaglio delle campagne contro Google o Starbucks. Con Obama arriva il rimpatrio dei fondi esteri pagando un’imposta sostitutiva, Trump riporta in casa la finanza, oltre alla produzione, Biden stanzia i mega incentivi alla transizione elettrica. Finché gli americani non spingono sulla tassa minima globale del 15 per cento. E qui c’è il trucco perché nel frattempo gli Usa abbassano le loro aliquote. “Fanno i loro interessi, la crescita americana si spiega anche così. Noi invece non facciamo i nostri”, commenta Simontacchi.
Il problema maggiore non è varare altre norme, ma dare certezza che non cambino a ogni stormir di fronde politiche: “Da un investitore estero che voglia aprire un’impresa ci si sente dire: non ci fidiamo, chi assicura che le condizioni di oggi dureranno anche domani? Più che moltiplicare le leggi dobbiamo dimostrare che il paese è stabile e segue una strada dalla quale non devierà. Possono variare naturalmente modi e tempi per raggiungerla, non la meta finale”. Simontacchi mette l’accento sul Mediterraneo: “È l’area del mondo nella quale l’Italia può avere un vantaggio competitivo, tuttavia anziché muoverci soltanto con trattati unilaterali è meglio cambiare in Italia le norme affinché chi vuole investire in Africa apra una holding da noi, in modo da diventare il centro di un ecosistema. Dobbiamo imparare dall’Olanda, così come nelle infrastrutture. Pensiamo ai porti e alla logistica: perché mai le merci africane debbono sbarcare a Rotterdam e non a Gioia Tauro? I nostri approdi competono su tutto e rifiutano di specializzarsi. Le ragioni sono di piccola politica locale”.
Le infrastrutture ci conducono dritti dritti al turismo. Anche in questo caso il punto debole è la mancanza di “pianificazione strategica” insiste Simontacchi. Ammesso che sia il nostro petrolio, bisogna ammettere che gli altri ne estraggono di più. Prendiamo la Spagna. Iberia con Vueling ha creato una compagnia low cost. Alle Baleari la permanenza media è due settimane, in Sicilia che ha ben altre attrazioni, è un paio di giorni. L’Italia non ha più un suo tour operator. Anziché nuove catene alberghiere, c’è stata la proliferazione di B&B. “I migliori hotel sono in Trentino Alto Adige e Valle d’Aosta, due regioni autonome che hanno saputo mettere a frutto gli incentivi”.
Ecco, torniamo agli incentivi fiscali. Niente più sostegni a pioggia, puntiamo solo su attività intangibili come innovazione, intelligenza artificiale, ricerca. Le stesse aggregazioni di imprese vanno favorite se il risultato è maggiore della somma delle componenti. E sulla governance? “Oggi la giurisdizione italiana non è competitiva, però non basta aumentare il voto maggiorato per impedire di andare in Olanda. Serve tutelare le filiere produttive, rimpatriare gli alti redditi e incentivare ricerca e sviluppo, convogliare nei fondi d’investimento il risparmio privato. E su tutto un più efficiente e rapido accesso ai servizi della burocrazia”.
Il governo pensa di sostenere e allargare la base manifatturiera. “Sì, ma attenzione: non possiamo essere come la Polonia. Tra l’altro ci manca ormai anche la manodopera. Il nostro futuro è nella parte alta della scala del valore”. L’Italia per lungo tempo ha scelto di collocarsi in nicchie d’eccellenza. Ora bisogna uscire dalle nicchie senza perdere l’eccellenza.