verso l'ecofin

Ecco la strada senza uscita dell'Italia su Mes e Patto di stabilità

Luciano Capone

Veto o non veto? Giorgetti e Meloni di fronte a un bivio: come rivendicare un successo anche in caso di sconfitta. Trattative e obiettivi

L’ottimismo sta un po’ svanendo. La sensazione è che neppure l’Ecofin straordinario di venerdì 8 dicembre, convocato per trovare l’accordo sul nuovo Patto di stabilità, sarà l’ultimo. Lo si vede dal pressing del Commissario europeo Paolo Gentiloni per chiudere il negoziato. Ma l’accordo non appare vicino. Non sono stati fatti passi grandi avanti nel negoziato tra Francia e Germania, che potrebbe blindare lo schema delle nuove regole fiscali, da un lato perché Parigi ha una traiettoria del debito poco compatibile con l’approccio tedesco, dall’altro lato perché Berlino è bloccata dai problemi interni causati dalla sentenza della Corte costituzionale sui fondi emergenziali fuori bilancio.

 

L’incontro politicamente più importante però sarà la cena dei ministri delle Finanze europei di giovedì, una sorta di Ecofin informale la sera che precede il vertice ufficiale. Il rischio, per il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, è che al tavolo gli venga servito un accordo indigeribile. Uno schema, cioè, con piani pluriennali di rientro concordati con Bruxelles che ricalchi la proposta della Commissione con a fianco le clausole chieste dalla Germania sulla riduzione quantitativa annuale del debito. L’Italia lavora per trovare un accordo. Ma se non ci saranno gli “scorpori” richiesti, dalle spese per la difesa (che sono marginali) agli investimenti legati al Pnrr e agli obiettivi comuni europei, che cosa farà il governo Meloni? Non è esclusa l’opzione estrema di mettere il veto.

 

Giorgetti descrive oggi la posizione del governo in audizione alle commissioni Bilancio di Camera e Senato. Ma sulla possibilità di ricorrere al veto il titolare del Mef ha più volte detto che se deve mettere la firma su un accordo non sostenibile, che cioè l’Italia non riesce a rispettare, preferisce non rispettare le regole firmate da altri. Ovvero lasciare il “vecchio” Patto di stabilità, formalmente solo sospeso, a lungo criticato per la sua “rigidità”. Non mancano gli argomenti, anche tecnici, per tenere questa linea.

 

Sono stati spiegati con chiarezza, sabato sul Sole 24 ore, dall’ex ministro dell’Economia Giovanni Tria, che è una persona molto ascoltata da Giorgetti. Le nuove regole, a fronte di maggiore “flessibilità”, demandano il percorso di aggiustamento alla Commissione che avrà rispetto ai governi un forte potere e un’ampia discrezionalità: l’Europa non imporrebbe solo l’obiettivo di riduzione di deficit e debito, come prima, ma anche come raggiungerlo.

 

Naturalmente, come spiega Tria, rifiutare l’accordo comporta un onere: l’Italia dovrebbe accelerare il suo percorso di riduzione del deficit e del debito, per mostrarsi credibile ai mercati e rafforzare la propria posizione rispetto a Bruxelles. Si tratterebbe, insomma, di mettere mano già adesso a una legge di Bilancio che, secondo la Commissione, mostra un debito in aumento nel prossimo triennio. Tria ha in mente la sua azione durante il governo Conte I, quando riscrisse la legge di Bilancio a dicembre per poi fare un’altra correzione dei conti in corso d’anno. Ma è una strada politicamente impraticabile per il governo prima delle elezioni europee.

 

Ed è soprattutto incompatibile con un’altra scelta politica di fondo di Giorgia Meloni: entrare nei giochi per la prossima Commissione europea, magari a sostegno di un bis di Ursula von der Leyen, con cui ha costruito una buona intesa. Con il veto al Patto di Stabilità, che si sommerebbe a quello sul Mes, Meloni verrebbe risucchiata nell’angolo della destra sovranista che Matteo Salvini ha convocato a Firenze. Una compagnia in cui neppure Giorgetti pare trovarsi a suo agio. È probabile che alla fine il governo si farà andare bene l’accordo che verrà servito, anche se non è esattamente quello ordinato.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali