Bernardo Caprotti con la moglie Giuliana nel 2015 (Olycom) 

Quante ricchezze in frantumi

Il paradiso avvelenato delle famiglie in lite per l'eredità

Stefano Cingolani

Si alzano molti veli su Bernardo Caprotti e la sua Esselunga, primo supermarket all’americana. Racconta tutto il figlio Giuseppe, una storia di patriarcato al tramonto: quello del capitale

Il giorno 9 ottobre 2014, davanti al notaio Carlo Marchetti, a Milano, Bernardo Caprotti, 89 anni, firma un testamento che racchiude in sintesi la sua vita e la sua filosofia. “Famiglia non ci sarà – così è dattiloscritto, sembra una trascrizione del parlato – Ma non ci saranno le lotte. O saranno inutili. Le aziende non saranno dilaniate”. C’è poi una postilla intitolata “Il futuro di Esselunga”: “Sto dotando l’azienda di un management di alta qualità. E’ diventata attrattiva. Però è a rischio. E’ troppo pesante condurla, pesantissimo possederla. Questo paese cattolico non tollera il successo. Occorre trovarle, quando i pessimi tempi italiani saranno migliorati, una collocazione internazionale”. Non manca una indicazione precisa: “Ahol sarebbe ideale. Mercadona no. Attenzione: privata, italiana, soggetta ad attacchi, può diventare Coop. Non deve succedere”. Bernardo è morto il 30 settembre 2016. Esselunga non è stata venduta e non è diventata una cooperativa. Le eredi, la seconda moglie Giuliana Albera e la figlia Marina, alle quali ha lasciato il 70 per cento delle azioni, hanno deciso di andare avanti da sole, per il momento. Ai figli della prima moglie, Giuseppe e Violetta, è andato il restante 30 per cento diviso in parti uguali: nel 2020 lo cedono per 1,83 miliardi di euro a Giuliana e Marina. Quest’ultima, lasciata Londra dove viveva, prende in mano il timone affiancata dal marito, il nobile siciliano Francesco Moncada di Paternò. Nel testamento, il vecchio Caprotti fa riferimento ad “anni di battaglie legali e di maldicenze da parte di Violetta e di Giuseppe” che ha escluso dal potere anche se non dalla ricchezza. Ora è proprio Giuseppe, esautorato prima come amministratore delegato poi come erede, a raccontare la propria versione in un libro intitolato “Le ossa dei Caprotti” (Feltrinelli), alzando molti veli sulla famiglia, sulle origini delle sue fortune, sulla nascita e il successo del primo supermarket all’americana fondato da Nelson Rockefeller. E’ un’altra rilevante storia di un patriarcato al tramonto, il patriarcato del capitale, senza che sia sorto un altro modo di concepire la famiglia e l’impresa. Si sono pubblicati molti libri sull’ascesa e il declino delle grandi fortune, negli ultimi anni è diventato un genere, se non una moda. E non a caso, perché oggi più che mai siamo alla ricerca di un nuovo modello. Forse non lo troveremo, non uno soltanto, non più uno dominante sugli altri. Cattolici e protestanti sono sulla stessa barca. Max Weber se fosse vivo dovrebbe riscrivere il suo saggio più famoso. 

   

    

Che cosa hanno in comune le famiglie Agnelli, Benetton, Campari, Caprotti, Del Vecchio, Hermès, Marzotto, Merloni, Porsche? Hanno in portafoglio grandi fortune, detengono azioni in imprese importanti e spesso le controllano, si sono lacerate sull’altare del comando. L’eredità Caprotti ha molte somiglianze con l’eredità Del Vecchio. Il fondatore della Luxottica in realtà ha espatriato in Francia la sua azienda, tuttavia ha lasciato la quota maggiore nelle mani della seconda moglie Nicoletta Zampillo. Con il primogenito Claudio c’è stata una rottura alla fine degli anni 90, è rimasto a New York, ha rilanciato la Brooks Brothers poi venduta con la pandemia. Agli altri tre sono andati cospicui pacchetti azionari, il 12,5 per cento che equivale grossomodo a 3,75 miliardi, ci sono poi case, yacht, Rolls Royce, dipinti di Canaletto e Van Dyck. Ma è scoppiata una lite sulla tassa di successione (56 milioni al fisco) e sul ruolo di Francesco Milleri che ha in mano la cassaforte finanziaria Delfin oltre a gestire Essilor Luxottica. Anche Leonardo Del Vecchio è rimasto fedele all’uomo solo al comando, come Bernardo Caprotti, come Gianni Agnelli e suo nonno. 

  

Dopo la morte dell’Avvocato e del fratello Umberto, la famiglia reale del capitalismo italiano ha rischiato di perdere il controllo, con la Fiat sull’orlo del collasso, finita in mano alle banche creditrici. La successione in realtà non è mai stata facile, attraversata da tragedie umane (si pensi al suicidio di Edoardo, il figlio dell’Avvocato) o maledizioni del caso (come la morte improvvisa a soli 33 anni di Giovanni Alberto, figlio di Umberto). Nel biennio terribile 2003-2005 il crollo della Fiat e della famiglia viene evitato grazie a due mosse audaci: blindare la proprietà e scegliere un manager di prim’ordine come Sergio Marchionne. L’erede designato per tempo è John Elkann, nipote di Gianni, con il compito di mantenere gli equilibri nel clan composto ormai da oltre cento membri. E lui lo ha fatto secondo lo stile di casa: ha il 60 per cento della Dicembre, l’accomandita alla quale fa capo l’intera piramide societaria, il resto ai fratelli Lapo e Ginevra. Il suo punto di forza è che in 20 anni ha moltiplicato per 25 volte l’eredità, passando da 1,3 a 30 miliardi di euro. E la madre Margherita ha ingaggiato una guerra senza esclusione di colpi contro i tre figli avuti da Alain Elkann e a favore dei 5 rampolli di Serge de Pahlen, il secondo marito. Ma il reame degli Agnelli non consente divisioni del potere, come alla Volkswagen dilaniata a lungo dal conflitto tra due famiglie. 

  

    

Ferdinand Karl, figlio di Anton Piëch e Louise Porsche, nato a Vienna nel 1937 e svezzato in azienda fino al 1971, grazie al successo della 907 viene chiamato alla Audi per rilanciare il marchio. Una carriera folgorante che gli vale il comando del gruppo quando Carl Hahn nel 1993 lascia una Volkswagen piena di buchi. Piëch li tappa tutti e viene incoronato salvatore. Finché è rimasto in vita Ferry Porsche, figlio del geniale Ferdinand, il progettista di origine boema che concepì la macchina del popolo su indicazione di Hitler in persona, la sua autorità aveva tenuto insieme appetiti, rivalità, revanscismo. Il vecchio Ferdinand si spegne nel 1951, riabilitato da tre anni, fa appena in tempo a vedere il successo della nuova 356 alla 24 ore di Le Mans. Ferry tiene le redini di fatto fino al 1989 (muore il 27 marzo 1998). Il figlio Ferdinand Alexander detto Butzi è al suo fianco finché tra i Porsche e i Piëch non scoppia una rivalità che va avanti per anni. Con un carattere brusco e imperioso, consapevole del peso che la storia ha messo sulle sue spalle, Ferdinand Piëch è sempre stato un uomo laborioso e timorato. L’unico eccesso, il troppo amore per le donne. Non a caso ha 12 (alcuni sostengono 13) figli nati da quattro unioni diverse, alle quali va aggiunta una serie di avventure sentimentali, come quella con Marlene, l’ex moglie del cugino Gerd Porsche. Anche Piëch è uno specialista nel defenestrare i suoi manager, specialmente quelli che egli stesso ha designato come propri successori. E si comincia persino a insinuare che voglia mettere il colosso Volkswagen nelle mani dell’ultima moglie Ursula, ex bambinaia dei suoi figli. Contro di lui si erge Wolfgang, il più giovane figlio di Ferry. Tiene duro Piëch, finché nel 2015 dopo l’ultima guerra contro l’ennesimo capo azienda, si dimette. Muore quattro anni dopo lasciando campo libero a Wolfgang Porsche che con il 53 per cento dei diritti di voto controlla la Volkswagen. 

 

I conflitti intestini sono costati cari ai Marzotto. Restano insieme per cinque generazioni, la sesta si divide in più rami. Pietro, ultimo dei sette figli del leggendario Gaetano, leader storico della famiglia di Valdagno, voleva allargare la base azionaria del grande gruppo tessile diventato ormai una grande holding e affidarne la gestione a un manager. Apriti cielo. Le divergenze precipitano con l’opa su Zignago Santa Margherita. Pietro si oppone agli altri fratelli, l’operazione salta, ma lui esce di scena. “Vengo buttato fuori”, ricorderà anni dopo. Il clan si spacca tra i Marzotto di Valdagno e quelli di Fossalta di Portogruaro. Vengono ceduti i Jolly Hotel, venduti Valentino e Hugo Boss, e via via dimagrendo. Figli, mogli, mariti, nipoti, ognuno per sua strada, tra vini, finanza, iniziative varie, anche interessanti e profittevoli, ma senza più un centro di gravità permanente. 

Famiglie divise che si disperdono o si ridimensionano come i Merloni. O liti penose come nell’impero delle patatine e degli snacks. Alberto Vitaloni, il fondatore, è in gravi condizioni e i figli Francesco, Michele e Susanna Vitaloni ai quali aveva distribuito una quota del 15 per cento ciascuno, si contendono a suon di cause legali la sua fortuna. Con Francesco e Michele contro Susanna, la preferita che guida l’azienda. Anche alla Campari scoppia una guerra giudiziaria tra i fratelli Garavoglia. L’ultima erede della famiglia Campari, Angiola Maria Migliavacca, nel 1982 vende l’azienda a Erinno Rossi e Domenico Garavoglia. Luca, 54 anni, figlio di Domenico è al comando dal 1996. A lui fa capo la società lussemburghese che detiene il 51 per cento; il 46 per cento va alla sorella Alessandra che nel 2000 fa causa alla madre Anna Rosa Magno, a Luca e all’altra sorella Maddalena, accusandoli di averla estromessa. Vince e ottiene 100 milioni di euro. I dissidi si ripresentano nel 2017 alla morte della madre che aveva designato eredi universali Luca e Alessandra. Adesso è Maddalena a fare causa, vuole 400 milioni, la lite si  chiude nel giugno scorso con 50 milioni in più tranche. 

 

I quattro rami dei Benetton, invece, dopo anni di divisioni, travolti dal crollo del ponte Morandi e rimasti orfani dello stratega finanziario Gilberto, per non violare l’armonia ritrovata hanno deciso di spartirsi il vasto impero immobiliare che vale circa 900 milioni di euro, affidandosi alla sorte. Si sono rivolti a dei consulenti i quali hanno costruito quattro “pacchetti” grosso modo equivalenti. Poi hanno assegnato i diversi palazzi ai quattro rami della famiglia: a Luciano, Alessandro Benetton e fratelli, agli eredi di Carlo, a Sabrina figlia di Gilberto, a Giuliana e ai suoi figli. Parliamo di edifici come il Fondaco dei tedeschi a Venezia, l’Augusto Imperatore di Roma, la Loggia dei mercanti a Firenze e poi Cortina, il palazzo sugli Champs Elysées a Parigi, una lunga e sontuosa lista. Restano fuori i negozi della United colors di Luciano: sono la quota più consistente con un valore che supera il miliardo di euro. Quel che non poté la virtù, può la fortuna, avrebbe detto Machiavelli.


La proprietà non è un furto al contrario di quel che sosteneva Proudhon, ma può essere un regalo. Un erede Hermés è stato messo sotto accusa dai parenti per aver favorito un immigrato. Nicolas Puech, discendente di 5 generazione di Thierry Hermès, ha lasciato l’azienda nove anni fa e si è ritirato in Svizzera dove riscuote i dividendi del suo pacchetto del 5 per cento. Giunto a 80 anni senza eredi ha deciso di lasciare tutto (10 miliardi di euro) al suo giardiniere tuttofare di origine marocchina che lo ha molto aiutato durante la pandemia. Adesso non solo i suoi parenti minacciano di farlo interdire, ma s’è messa contro anche la Fondazione Isocrate, una Ong fondata da Puech che nel 2011 era stata designata come unica beneficiaria. 


L’eredità lacera le famiglie, il comando le avvelena, la scomparsa del patriarca lascia un vuoto difficile da accettare e ancor più da riempire. Ma forse poche altre storie sono così controverse e dolorose come quella di casa Caprotti, da sempre litigiosa, umorale, ricca di personalità forti e autoritarie. Giuseppe ricorda che il nonno Peppino aveva escluso il primogenito Bernardo dalla dimora di famiglia per “un valore morale” e i litigi tra padre e figlio erano quotidiani e molto violenti. Imprenditore della Brianza, dove gli avi avevano posseduto dei cotonifici fin dal Settecento, Giuseppe muore a 53 anni per un incidente d’auto mentre torna da una vacanza con l’amante Anna Z. Lascia tre figli: Bernardo che a soli 26 anni deve prendere sulle sue spalle la Manifatture Caprotti, Guido e Claudio; i rapporti tra loro saranno tempestosi, così come lo erano stati quelli del padre con gli zii, racconta Giuseppe. Peppino aveva un gran talento imprenditoriale. Era stato lui a far decollare l’azienda e a entrare nel salotto buono milanese soprattutto nel secondo dopoguerra, sfruttando con intelligenza il piano Marshall. I tre fratelli condividono affetti e affari per anni, anche se  “il carattere litigioso di Bernardo renderà penosa la vita di Guido nella casa di famiglia ad Albiate dove il pater familias  eserciterà sempre un potere dispotico”. Finché non “arrivano i marines”. 


La leggenda alimentata anche da Bernardo vuole che tutto sia nato per caso, ascoltando chiacchiere da toilette nello storico Hotel Palace di St. Moritz. I due origliatori erano Guido e il suo amico Marco Brunelli. A parlare sarebbe stato Cesare Brustio (la famiglia era azionista assieme ai Borletti della Rinascente), il quale spiegava a un conoscente che Nelson Rockefeller aveva intenzione di inviare alcuni suoi uomini in Italia con l’obiettivo di aprire dei supermercati e cercava dei soci locali, disposti a rimanere in minoranza. “Con l’energia dei venticinquenni, lo zio Guido e Brunelli si precipitarono ad Albiate per avvertire mio papà Bernardo e tutti insieme riuscirono, poi, a soffiare l’affare ai Brustio e ai Borletti, entrando in società con Rockefeller e arrivando ad aprire il primo supermercato moderno d’Italia, il 27 novembre 1957, in viale Regina Giovanna a Milano”. Le cose sono molto più ingarbugliate e il racconto è una delle pagine più fresche e nuove del libro. I Brunelli erano conosciuti come i maggiori mercanti d’arte di Milano. Tra i clienti c’era James Hugh Angleton che ricopriva il ruolo di presidente della American Chamber of Commerce in Italia. Il figlio James Jesus era un famoso agente segreto e aveva iniziato proprio in Italia, dove nel 1944 era diventato il capo del controspionaggio dell’Office of Strategic Services (OSS). Il padre era arrivato a Milano dall’Ohio nel 1933, portandosi al seguito la moglie e i quattro rampolli e prendendo casa in corso Venezia. Dopo il 1945 aveva ripreso la guida della American Chamber of Commerce in Italia, stabilendosi a Roma, dove nel frattempo il figlio James Jesus era diventato capo della stazione della Cia. “Brunelli mi ha raccontato che Angleton padre gli aveva rivelato l’idea di Nelson Aldrich Rockefeller, nipote del celebre fondatore della Standard Oil e futuro vicepresidente degli Stati Uniti, di studiare l’apertura di una catena di supermercati in Italia già durante la mostra sul Settecento Veneziano”. 


Angleton era uno dei punti di riferimento per l’Italia della International Basic Economy Corporation (Ibec), costituita da Rockefeller nel 1947, che già nella prima metà degli anni 50 aveva aperto supermercati in Venezuela, a Portorico, in Perù. Rockefeller voleva espandersi anche su questo lato dell’Atlantico e stava sondando il terreno. E fu così che, quando nel 1957 l’avventura ebbe effettivamente inizio, Angleton si ritrovò al fianco dei fratelli Mario e Vittorio Crespi, all’epoca editori del Corriere della Sera. Riuscì a coinvolgere nella cordata anche Guido Caprotti, che si portò dietro il fratello Bernardo. Brunelli nella prima fase era il principale azionista e Guido il suo braccio destro. Poi ci sarà la rottura: Brunelli a Roma creò la Gs, una catena di supermercati di successo (sarebbe poi finita all’Iri), smentendo il pregiudizio che la novità all’americana poteva funzionare solo a Milano. A Bernardo non piacque, richiamò Guido e gli impose di troncare ogni rapporto. La Ibec sfondò a Milano e anche a Firenze sotto la guida dell’esiliato Guido. “La corrispondenza di Nelson Rockefeller – scrive Giuseppe – chiarisce al di là di ogni possibile dubbio che i fratelli Caprotti, nelle fasi iniziali delle vicende di Esselunga, giocarono un ruolo estremamente marginale”. Il vero motore dell’impresa fu Richard Boogaart che ha dato l’impronta americana all’intera organizzazione. 

 
Nel 1960 la Ibec mise in vendita il 51 per cento di quella che era già la Esselunga. “I Caprotti furono più determinati degli altri o, forse, ci credettero di più. Qui va sottolineata la capacità d’intuizione di Bernardo, che grazie al suo soggiorno negli Stati Uniti prima della scomparsa del padre aveva potuto vedere i supermercati americani e misurarne le potenzialità”. I tre fratelli misero sul piatto 4 milioni di dollari da pagare alla Ibec subito, più un altro milione al termine di un contratto che impegnava i manager americani a gestire Esselunga per altri cinque anni. La famiglia stava investendo buona parte delle sue fortune per rilevare un’azienda in cui, fino a quel momento, nessuno dei tre fratelli aveva praticamente messo piede. Venne costituita in Svizzera la Supermarket Holding che resta ancor oggi la cassaforte del gruppo. Anche Marianne Maire, la madre di  Bernardo, prestò 300 milioni di lire che non le verranno mai restituiti. 


Comincia così l’avventura imprenditoriale che si fa intrigante quando entra in scena brevemente anche Michele Sindona. Per prendere possesso di tutta l’Esselunga i fratelli Caprotti impiegano dieci anni. Intanto Bernardo sposa Giorgina, appena diciassettenne proveniente da una famiglia della borghesia milanese più in vista, imparentata per via di madre con Piero Portaluppi, vera archistar tra le due guerre, mentre il padre Guido Venosta, già allievo di Keynes a Cambridge, poi alla Pirelli, diventa l’artefice dell’Associazione per la ricerca sul cancro con Umberto Veronesi e Giuseppe Della Porta. Il matrimonio con Bernardo Caprotti non regge a lungo, Giorgina s’innamora di Aldo Bassetti, comincia a pendere a sinistra, creando così un solco anche politico con il marito. Lei è amica dei Crespi e dei Feltrinelli, lui di Indro Montanelli e Silvio Berlusconi. Arriva la separazione e noi ci avviciniamo a quell’intreccio psicologico che è il fulcro del rapporto tra Bernardo e il figlio Giuseppe. 

 
“Attorno ai 10 anni di età inizio a prendere coscienza delle difficoltà nei rapporti fra di noi – racconta – La distanza è accentuata dal fatto che a Giorgina somiglio fisicamente. Gli ricordo la ‘traditrice’, per usare uno dei termini più gentili con cui si riferisce a lei. A me da parte sua manca l’affetto fisico, mai un abbraccio o una carezza. Non pronuncia mai parole di apprezzamento: l’ironia, che è il suo punto forte, si trasforma spesso in sarcasmo”. Da questo momento si scatena un duello penoso che finirà con una rottura drammatica. “Diventare il braccio destro di nostro padre non è stato sufficiente per essere amato e fare di me il suo erede. Un peccato per lui e per me, ma credo anche per l’azienda”, confessa Giuseppe. Si sente diverso e i diversi a Bernardo non piacciono. “Lui si considera ed è un grande borghese, un uomo d’affari geniale. Io invece sono semplice ‘come uno svedese’: la battuta è di mamma Giorgina… Ho però un tratto comune con mio padre: a nessuno dei due interessa il denaro fine a se stesso. Bernardo non ama il lusso. A lui il denaro serve per esercitare il potere, che invece gli piace moltissimo”. 

 
La Esselunga è un grande successo, diventa numero uno in Italia e nessuno fa ombra a Bernardo che rompe anche con i fratelli, prima con Guido poi con Claudio. Ad avvelenare gli animi c’è di mezzo anche la tresca tra Claudio e Lu, la moglie di Guido. Fatto sta che “Bernardo poté prendersi l’Esselunga senza avvertire il fratello Claudio, utilizzando le risorse che erano nell’azienda stessa, grazie ai dividendi che quest’ultima distribuiva”. Giuseppe entra in azienda nel 1986 a 26 anni e viene sottoposto a un duro e serio tirocinio. Vuole innovare, rinfrescare l’immagine, espandere la mercanzia come nei supermarket Dominick’s, la catena che fa capo a Dominick Di Matteo e nasce nella Little Italy di Chicago. E’ “una vera scuola di guerra”, lì fa esperienza e imparare cose nuove che vuole portare alla Esselunga. Apriti cielo. Tuttavia i suoi superstore, l’e-commerce, la carta Fidaty, il biologico, le campagne pubblicitarie con John Lemon, cambiano volto a una catena ormai fanée. Comincia un tira e molla che diventa spesso braccio di ferro, Giuseppe viene circondato, controllato, spesso sabotato dal cerchio magico: al centro c’è Germana Chiodi, la segretaria che spesso diventa consigliera, alla quale Bernardo nel testamento lascerà 75 milioni di euro, più una donazione precedente di 10 milioni. Per circa duecento pagine il racconto entra nel dettaglio dei rapporti interni con quell’alternarsi di chiaroscuri che alla fine diventa parossistico. “Due punti sono essenziali per comprendere la nostra storia di famiglia – scrive Giuseppe – Uno è la gelosia di cui soffriva Bernardo. L’altro è il fatto che i conflitti non sono mai stati gestiti, perché le persone che non si allineavano a nostro padre sono sempre state messe ai margini”. 

 
E’ nota la sceneggiata delle Mercedes nere a bordo delle quali vengono cacciati tre top manager vicini al figlio e quando questi chiede se la quarta è per lui, il padre gli risponde “non ancora”. Con l’età viene anche il tempo dell’eredità. Nel 1996 Bernardo decide di intestare le azioni ai figli: 32 per cento a Violetta e Marina (appena diciottenne) avuta da Giuliana, la seconda moglie, 36 per cento a Giuseppe. Buona parte del grande patrimonio immobiliare dell’Esselunga va a Giuliana. Gli investimenti immobiliari condotti con Luigi Zunino impiombano le finanze del gruppo: nel 2002 l’esposizione arriva a 134 milioni di euro. Un anno dopo Giuseppe rilascia un’intervista a Panorama: è autorizzata, ma il titolo è galeotto: “Il signor Esselunga”. E’ “una condanna a morte”. Comincia la sua demolizione sistematica che mette in discussione anche i bilanci. Giungiamo così al 2004. “Il primo di aprile Germana viene nel mio ufficio e mi dice di ‘prendermi una vacanza’. Impacchetto una piccola parte delle mie cose e il giorno dopo, il 2 aprile, lascio l’azienda. Non vi rimetterò mai più piede”. Nel settembre 2007 Bernardo pubblica il libro “Falce e carrello”: oltre alle invettive contro le Coop rosse, contiene la sua storia: nel presentarlo dice di aver sgominato “una gang di manager che voleva impadronirsi del potere”. Giuseppe ha impiegato 26 anni per mettere insieme con puntiglio un puzzle diverso. Il suo libro trasuda amarezza, è una seduta analitica in pubblico, va letto con queste lenti, ma è anche una fonte preziosa per chiunque voglia penetrare nel bosco intricato del capitale, non solo quello italiano. “Non è detto che tutti i grandi imprenditori siano anche padri ammirevoli – scrive Giuseppe – Qualche volta amano se stessi più dei figli e del futuro della loro azienda”. Ivan Turgenev in “Padri e figli” ha raccontato in modo magistrale lo scontro tra generazioni, ma erano in ballo le idee, i vecchi valori e il nuovo “nichilismo”. Nelle nostre storie è in gioco soprattutto “la roba”, per loro parlano Mazzarò e Mastro don Gesualdo.