bollette
Il pasticcio della “maggior tutela”. Cronaca di un delirio
Sulla liberalizzazione del mercato elettrico si è costruito un garbuglio poi risolto con un mini-rinvio. Tre domande senza risposta e qualche responsabilità da ricordare
La discussione sulla liberalizzazione del mercato elettrico, dopo aver monopolizzato il dibattito pubblico, è scivolata via dalle pagine dei giornali. Vale la pena ripercorrerne le tappe per rendersi conto quanto quello scontro sia stato strumentale, lontano dalla sostanza delle cose e in fin dei conti dannoso.
Tutto inizia il 19 settembre, quando il ministro dell’Ambiente, Gilberto Pichetto Fratin, rilascia la prima di una lunga serie di dichiarazioni, mettendo in guardia contro il rischio che “dieci milioni di famiglie italiane all’11 gennaio del 2024 ricevano una bollettazione da una srl che non conoscono”. Da qui derivava l’esigenza di una capillare campagna di informazione (peraltro prevista dal 2017) e, per evitare ulteriori disguidi, un meccanismo per trasferire automaticamente le domiciliazioni bancarie ai nuovi gestori. Questi avrebbero dovuto essere individuati tramite aste da svolgersi l’11 dicembre, cioè lunedì scorso. Anziché cercare una soluzione ai problemi concreti che aveva individuato, il ministro in più occasioni annunciò una proroga, paventando anche aumenti dei prezzi. Questi timori furono ripresi, amplificati e cavalcati dall’opposizione e perfino da pezzi della maggioranza. Sicché la questione, come si dice, divenne politica e si mischiò alle tante altre che dovevano essere affrontate all’interno di un decreto energia, molto atteso perché conteneva anche previsioni cruciali sui prezzi dell’energia per le industrie energivore.
La liberalizzazione dei mercati dell’elettricità e del gas era però una pietra miliare del Pnrr. Avrebbe dovuto originariamente essere conseguita a gennaio 2023 ma, anche in considerazione delle elezioni anticipate, fu rimandata al 2024. Nel frattempo la Commissione Ue aveva inserito proprio questa riforma tra quelle ormai conseguite, e sulla base di questo aveva autorizzato (28 luglio) ed erogato (9 ottobre) la terza rata da 18,5 miliardi. E’ per questo che il ministro per gli Affari europei, Raffaele Fitto, si è trovato nella posizione di estremo e irremovibile difensore della riforma.
Così, il decreto Energia, che nelle prime bozze (25 settembre) conteneva il rinvio “da sei mesi a un anno” della liberalizzazione, finì per inabissarsi. Il 24 novembre si concluse la trattativa sulle modifiche al Pnrr, senza che mai a Bruxelles si sia ipotizzata una deviazione dal percorso già concordato ai tempi del governo Draghi (con l’adesione della maggioranza allora composta da Pd, M5s, Forza Italia e Lega) e confermato dal governo Meloni (e dunque da Lega, FdI e Forza Italia). Il marasma che ogni giorno si riversava sui giornali spinse addirittura la Commissione a uscire allo scoperto: “Da italiano e da ex presidente del Consiglio dico che è una riforma sensata. Da Commissario europeo rispondo che se un obiettivo è stato approvato e le risorse erogate, è difficile non tenerne conto”, disse Paolo Gentiloni il 3 dicembre.
Si arriva così al gran finale. Il 27 novembre il consiglio dei ministri aveva licenziato il famoso decreto energia, il cui testo – per quanto in bozza – non conteneva alcun rinvio della liberalizzazione. Otto giorni dopo, il cdm tornava a discutere la questione, approvando modifiche al decreto – ancora non pubblicato – anche in relazione alla fine della maggior tutela: nel comunicato stampa si parlava di domiciliazioni bancarie e campagna informativa, ma non di slittamenti. Infine, sabato 9 dicembre – due giorni prima delle aste – la pubblicazione in Gazzetta ufficiale apriva a un mini-rinvio. L’Autorità di regolazione per energia reti e ambiente (Arera), responsabile delle gare, spostava così il termine ultimo per la presentazione delle offerte al 10 gennaio. Una scelta a quel punto inevitabile e che probabilmente determinerà una proroga della presa in carico dei clienti da parte dei nuovi fornitori. I maliziosi dicono che questo avverrà a luglio, dopo le elezioni europee.
Restano tre domande: perché Pichetto non ha proposto subito (a settembre) un allungamento di un paio di mesi, in cambio della campagna informativa e dell’intervento sulle rid? Nessuno avrebbe avuto nulla da ridire. Perché in tutti questi mesi non si è messa in cantiere la famosa “campagna informativa”, per la quale peraltro è stato trovato un finanziamento esiguo (appena un milione di euro)? Da ultimo: chi ripagherà l’enorme danno reputazionale che questo scontro ha causato al mercato e agli operatori? Una domanda, quest’ultima, che dovrebbero porsi non solo i politici, ma anche quanti – tra aziende e soggetti pubblici – hanno gettato benzina sul fuoco anziché contribuire a sminare il terreno.