L'aiuto che spiega l'Italia /3
Lezioni sul mondo delle automobili da Madrid
La politica delle porte aperte ha trasformato la Spagna in un polo europeo, alla faccia di Vox, dei sovranisti, dei tardo franchisti e dei neofascisti. E ha lanciato un modello da esportare: poche lagne e condizioni vere per produrre
Chi dice automobile in Europa dice Germania: sforna 3,4 milioni di vetture l’anno, nessuno la può insidiare. Al secondo posto non c’è la Francia, messa oggi nel mirino perché protegge la francesissima Stellantis, bensì la Spagna con 1,8 milioni di veicoli in 17 stabilimenti tra i più efficienti (un robot ogni 10 operai) e 150 mila occupati nell’intero settore. Come ha fatto a salire così in alto, qual è il suo segreto? Lo vogliamo raccontare andando anche indietro nel tempo, ma a costo di rovinare la suspense diciamo subito che si chiama mercato.
E’ stato un capo del governo socialista in Spagna ad accogliere la Volkswagen dopo la ritirata della Fiat dalla Seat, l’azienda nazionale della quale lo stato aveva una partecipazione importante. E’ stato un capo del governo socialista in Italia a lasciare le porte chiuse alla Ford, consentendo che l’Alfa Romeo passasse alla Fiat. Stesso anno, il 1986, storie diverse e diverse anche le politiche. Proprio questa differenza tra Felipe González e Bettino Craxi è fondamentale per capire come mai oggi la Spagna sforna automobili due volte e mezzo più dell’Italia. Da una parte la concorrenza, dall’altra il monopolio. E dopo il danno anche la beffa perché Stellantis, in Italia, dove in pratica è produttore unico, produce meno che in Spagna. Non che Madrid non abbia aiutato la Seat, ma nel momento in cui ha capito che sostenere l’azienda nazionale non era sufficiente a salvare i posti di lavoro e la quota di prodotto lordo generata dall’automotive, come oggi piace chiamarlo, ha invitato a tavola tutti gli ospiti più importanti.
La politica delle porte aperte ha trasformato la Spagna in un polo europeo, alla faccia di Vox, dei sovranisti, dei tardo franchisti e dei neofascisti. La Seat (sempre più integrata nella Volkswagen) ha prodotto lo scorso anno 480 mila vetture, il resto viene da Stellantis (soprattutto con Peugeot e Opel), Mercedes-Benz, Renault, Nissan, Ford. La politica protezionista in Italia, invece, ha favorito la ritirata dell’industria automobilistica. Per capire quanto sia diffusa questa cultura di retroguardia, bisogna ricordare che anche il liberale Valerio Zanone, deputato torinese, volle dare l’Alfa agli Agnelli, insieme al Pci e a una parte della Dc. Romano Prodi, democristiano, allora presidente dell’Iri, all’inizio preferiva la Ford, poi cambiò idea. E Craxi dovette far ingoiare la scelta ai socialisti milanesi, alfisti convinti. Fu un grave errore e non solo con il senno di poi. Chissà quale lezione verrà tratta dal ministero del made in Italy che vuole portare a un milione di auto la produzione italiana, chissà se i sindacati e i partiti avranno il coraggio di seguire il modello spagnolo, prima che sia troppo tardi. Come nei telefilm del tenente Colombo, abbiamo mostrato subito i colpevoli, non ci resta che raccontare come è maturato il delitto. Per questo, non possiamo che cominciare dalle occasioni perdute.
L’ingresso della Fiat nella Seat è stato un altro bel colpo di Vittorio Valletta. La Sociedad Española de Automóviles de Turismo (S.E.A.T.) nasce nel 1950, alla fine di un processo cominciato dieci anni prima su iniziativa del Banco Urquijo e un gruppo di industriali. Il progetto è dar vita a un’azienda tutta privata in grado non solo di assemblare vetture straniere, ma di produrle in casa. La Spagna franchista aveva evitato di entrare nel secondo conflitto mondiale, ma era prostrata dalla guerra civile, con un mercato povero e una economia arretrata non faceva gola a nessuno nemmeno durante la ricostruzione. Finché l’Ini, la versione spagnola dell’Iri, non decide di investire l’equivalente di 3,6 milioni di euro attuali. I capitali sono fondamentali, ma non bastano, ci vuole capacità industriale. Fin dal 1948 sia il governo di Madrid sia le banche coinvolte avevano guardato come partner ideali alla Volkswagen nata dalle macerie naziste e alla Fiat. Gli italiani avevano molte frecce al loro arco: erano già entrati negli anni 30 anche se l’impianto di Guadalajara era stato distrutto dalla guerra civile, la collaborazione con la francese Simca aveva dato buoni frutti e dimostrava la capacità di gestire progetti internazionali complessi, in più l’esperienza nel mercato italiano, anch’esso protetto e a basso reddito, sembrava più consona alla situazione spagnola. L’Ini aveva la maggioranza, la Fiat metteva il resto, un pool di banche spagnole garantiva il flusso. Fu un successo. Nel 1953 dall’impianto vicino al porto di Barcellona chiamato Zona Franca (di nome e di fatto perché l’area era duty free) uscì il primo modello derivato dalla Fiat 1400. Nel 1963 la Seat 800 è stata la prima tutta spagnola, nel 1975 con la 1200 Sport l’azienda ha mostrato di aver imparato bene il mestiere. E’ l’anno in cui muore Francisco Franco, torna la monarchia e Juan Carlos accompagna la transizione verso la democrazia. Ma proprio mentre l’intero paese varca la soglia della maturità politica e di lì a poco anche economica, il rapporto con la Fiat entra in crisi.
La Seat aveva già collaborato anche con altri, con la Citroën o con la British Leyland. Il mercato interno mostrava tutti i segni di un vero e proprio boom e la Lancia Beta uscita dal nuovo stabilimento di Pamplona, diventava il simbolo del nuovo benessere. Ma ci volevano i capitali e tanti che la Fiat non vuole e non può dare. La seconda crisi petrolifera l’ha messa a terra, le tensioni sociali interne nel 1980 arrivano a sfiorare l’occupazione degli stabilimenti. I sindacati vengono sconfitti anche grazie alla mobilitazione dei capi. Ma l’Avvocato e il fratello Umberto passano la mano. Enrico Cuccia al quale avevano chiesto aiuto, induce gli Agnelli a dare i pieni poteri a Cesare Romiti. Egli stesso confesserà che per venticinque anni ha avuto carta bianca. La priorità per lui come per il suo mentore Cuccia è risanare i bilanci a tutti i costi anche imbarcando il colonnello Gheddafi. Prima la finanza, poi l’industria. Il dividendo va salvato. Con questa scelta di fondo non c’è più posto per la Spagna nonostante si stia sempre più rivelando il mercato di maggiore espansione in Europa. Così, il negoziato aperto dal governo di Madrid fallisce nel 1982 e il rapporto si chiude del tutto quattro anni dopo. La ristrutturazione della Fiat è drastica e ha successo, ma per Romiti quel che conta è occupare totalmente il mercato interno. E non solo perché non parla inglese. Nel 1985 fa saltare il matrimonio con la Ford che prevedeva una joint venture italo-americana da tre milioni di vetture, ma il capo sarebbe stato Vittorio Ghidella non Romiti che preferisce la dimensione domestica, quella che può controllare personalmente. E la Fiat mette in moto tutto il suo potere di pressione per prendersi l’Alfa Romeo. Chi ancora sostiene che la sua offerta era più conveniente dimentica che venne pagata a rate a cominciare dal 1992: alla fine del secolo l’Iri, quindi il Tesoro italiano, non aveva ancora incassato tutto il dovuto. La grande occasione di Valletta, dunque, si trasforma in un’occasione perduta da Romiti. E nel vuoto creato dagli italiani si sono lanciati i tedeschi.
La Volkswagen si prende la rivincita. La Fiat ha appena gettato la spugna (anche se mollerà tutto solo quattro anni dopo) e Carl Hahn, neo presidente operativo del gruppo, vede l’occasione propizia per la sua strategia: trasformare la “macchina del popolo” in un colosso mondiale. Non c’è tempo da perdere perché la Ford produce a Valencia e la General Motors a Saragozza, mentre il governo spagnolo apre trattative con Toyota, Nissan e Mitsubishi (tenute accuratamente lontane dall’Italia per non turbare la Fiat). Ma Hahn non è tipo da perder tempo: già a settembre le catene di montaggio di Barcellona cominciano ad assemblare la Passat che sarà ribattezzata Santana. Mentre da Pamplona se ne va la Panda e arriva la Polo. Si dice à la guerre comme à la guerre, tuttavia né la Seat né la Volkswagen ce l’hanno con gli italiani (a scanso di equivoci, di questi tempi meglio precisare). Viene ingaggiato Giorgetto Giugiaro per lavorare alla Malaga un modello derivato dalla Ritmo e lo stesso designer del resto progetta la Golf ispirandosi alla 127. Uno dei maggiori successi della Seat è stata la Marbella che altro non è se non la Panda con una mano di vernice. La Fiat non fa macchine scadenti, nonostante un radicato luogo comune, non è tecnologicamente arretrata, i suoi ingegneri sono in gamba finché li lasciano fare, quando invece prendono il potere gli uomini che badano all’intreccio tra finanza e politica, le cose cominciano ad “andare a ramengo” come si dice in Piemonte. L’apertura al mercato contro la quale l’azienda italiana si è sempre battuta finché ha potuto, è stata un ricostituente per l’industria spagnola, anche per la stessa Seat che non ha potuto contare su nessun monopolio e ha dovuto puntare su innovazione e produttività. Sia chiaro, non ce l’avrebbe fatta a superare le tempeste economiche e le innovazioni dirompenti degli ibridi samurai, se non ci fosse stata la Volkswagen, ma anche questo dimostra l’impatto vivificante della solidità finanziaria, della collaborazione tecnologica e del primato della produzione. Negli anni ’90 la Fiat è andata allo sbando tanto che aveva pensato di ridimensionare se non mollare l’automobile un pozzo senza fondo che ha sempre bisogno di capitali, per buttarsi su operazioni finanziarie come la scalata alla Montedison insieme alla francese Edf, con esiti disastrosi. Nel 2004, dopo la morte di Gianni e Umberto Agnelli, la Fiat è sull’orlo del crac. La Volkswagen è numero uno in Europa e punta al primato mondiale. Vent’anni prima correvano ancora testa a testa. Curioso che nel tanto discutere e chiacchierare in Italia sulla crisi dell’auto, il modello spagnolo non venga analizzato a fondo. Non si tratta di copiare, ma di cogliere la lezione. La Volkswagen ha sempre collocato al vertice della Seat manager di primo piano: dalla BMW è arrivato nel 2000 Bernd Peter Pischetsrieder, dalla Fiat Luca De Meo che ora è il gran capo della Renault. Una volta raggiunto il primato, il gruppo di Wolfsburg ha cominciato a considerare la Spagna un mercato ormai maturo, tanto che il progetto è di far scomparire la Seat per trasformarla in Cupra. Il marchio sportivo sta avendo un gran successo (153 mila immatricolazioni nel 2022, più 93 per cento e 107 mila solo nel primo semestre di quest’anno), ha conquistato il pubblico giovane e di fascia medio-alta (la Formentor ibrida parte da 48 mila euro), ha scelto un’immagine aggressiva, lo si vede anche dal logo, due C puntute in rame che s’incrociano a formare un triangolo invertito, una vera e propria freccia. Per la verità non è un prodotto del tutto nuovo, anche gli esperti tedeschi ammettono che si tratta di un’efficace operazione di marketing adattando e potenziando modelli già sul mercato. Le novità arriveranno nei prossimi anni. Ma le catene di montaggio di ultima generazione lo consentono, non c’è più bisogno di aprire nuovi stabilimenti, questa innovazione produce risparmi consistenti e consente un continuo mutamento del prodotto senza doverlo reinventare ogni volta.
Dalla fabbrica di Martorell (vicino a Barcellona) usciranno solo Cupra, la Seat diventerà una società di servizi per la mobilità, insomma andrà in pensione, ma nessuno piange sul marchio perduto, tutti invece scommettono su quello futuro, una differenza notevole tra lo spirito spagnolo e quello italiano. La nuova produzione sarà elettrica, quasi del tutto per Stellantis, in modo più equilibrato per i tedeschi che si stanno sempre più concentrando sulle fasce alte del mercato che per il momento (e forse un lungo momento) non soffrono la concorrenza né della Cina né della Tesla che non è in grado di competere su grandi volumi. Anche in Spagna sindacati e governo debbono affrontare l’impatto sociale della transizione, tuttavia non sentiamo arrivare le trombe del giudizio dal monastero dell’Escorial.