Il report
Indagine su un sistema imprenditoriale dinamico al sud Italia
361 medie imprese del meridione corrono più del sistema nord. Mediobanca studia e scommette: "Non esiste un unico Mezzogiorno a cui attribuire un’indiscriminata etichetta di area depressa e senza speranza"
Sono 361 giovani e forti. Rappresentano le medie imprese industriali del sud a proprietà famigliare, sotto i 500 dipendenti e i 370 milioni di fatturato. La notizia è che a puntare su di loro è nientemeno che Mediobanca che non ha remore a sostenere che “c’è un Sud che dimostra di correre più veloce del resto d’Italia”. Ascoltate, infatti, cosa dice Gabriele Barbaresco, direttore dell’area studi della banca d’affari milanese. “Non esiste un unico Mezzogiorno a cui attribuire un’indiscriminata etichetta di area depressa e senza speranza, ma più Mezzogiorni”. “Alcuni dei quali intraprendenti e ponte di collegamento con il Nord. La provincia di Catania, ad esempio, ha una densità imprenditoriale superiore a quella di Forlì-Cesena, Pesaro-Urbino e Parma”.
Per questo motivo “è fondamentale valorizzare le iniziative imprenditoriali di successo del Sud, certamente nell’ambito delle piccole imprese, e diffonderle nelle aree meno sviluppate”. E’ il modello di un’imprenditoria autoctona, non sussidiata e non trapiantata. E ancora: “I giovani, frequentemente presenti nelle amministrazioni locali del Sud, devono essere protagonisti del riscatto: essi possono avere un ruolo nell’ammodernamento e nell’efficientamento della macchina amministrativa, condizione essenziale per fare del Mezzogiorno un’area business friendly e pienamente ricettiva della grande occasione rappresentata dal Pnrr”.
Tanto ottimismo della volontà (e speriamo anche della ragione) si basa su una serie inappuntabile di dati che la banca milanese ha elaborato assieme al Centro studi Tagliacarne e Unioncamere. L’87 per cento di queste “ambasciatrici” del capitalismo famigliare meridionale conta di chiudere quest’anno con una crescita del fatturato contro il 76 per cento di quelle del centro- nord. Il 92 per cento di loro prevede aumenti delle esportazioni (contro l’81 per cento del centro-nord). Il 40 per cento prevede un aumento significativo della propria quota di mercato contro il 22,9 per cento delle altre aree d’Italia. In questa direzione sei medie imprese del Mezzogiorno su dieci investiranno in digitale e green proseguendo il cammino intrapreso tra il 2020 e il 2022 o con nuovi investimenti entro il 2025. La distribuzione settoriale vede tre comparti sommare da soli l’81 per cento (alimentari-bevande, meccanico e chimico-farmaceutico) con un mix che Barbaresco giudica in linea con i grandi trend che caratterizzano la nostra società, demografia e salute, e foriero di ulteriori prospettive di crescita.
Alla scontata obiezione che 361 pur fantastiche aziende non fanno una primavera gli economisti di Mediobanca rispondono che già da sole valgono il 12,6 del valore aggiunto manifatturiero del sud e che comunque lo studio indica un modello di business da replicare a manetta, un percorso di competitività e suggerisce una serie di upgrading. Insomma nessun compiacimento e tanto lavoro da fare. Quanto alla resilienza Mediobanca sottolinea che le rondini del sud l’hanno già dimostrata nel decennio 2012-21 quando hanno sovraperformato rispetto alla media italiana (produttività in crescita del 33,1 per cento) e in condizioni definite “sfavorevoli”: il livello di tassazione delle medie imprese meridionali risulta più elevato rispetto al resto d’Italia, 32,7 per cento contro 29,9.
Il report di Mediobanca sottolinea anche, con soddisfazione, come gli imprenditori delle medie imprese meridionali rifuggano dalla trappola del piccolo-è-bello e infatti il 48,6 per cento ritiene utile incrementare la dimensione aziendale per far fronte all’instabilità dei mercati e la stessa percentuale ritiene necessario favorire l’ingresso di competenze “più evolute” nel proprio consiglio di amministrazione. Una quota minore ma significativa (28,6 per cento) ha in progetto di aprire il proprio capitale a soci finanziari. L’importanza sud-sistemica delle aziende individuate da Mediobanca viene poi ribadita dall’intenzione di incrementare il numero dei fornitori privilegiando quelli di prossimità per avere supply chain più continue e meno condizionate dal rischio geopolitico. L’ultima considerazione, non in ordine di importanza (e non positiva), riguarda la gestione del capitale umano in un Mezzogiorno che vede fuggire i giovani per studiare altrove e fatica a fidelizzare i propri talenti, figuriamoci ad attrarne. Il 29 per cento delle imprese prese in considerazione non adotta nessuna politica per trattenere i dipendenti più promettenti e quando si tratta di combattere le “grandi dimissioni” usa in prevalenza la leva salariale mentre solo l’8 per cento ricorre allo smartworking.
Ma l’insieme di questi dati può credibilmente cambiare la narrazione a senso unico del nostro sud? “Sulle vicende economiche del Mezzogiorno si fronteggiano due letture – risponde Barbaresco – Una di impianto macroeconomico che sulla base di dati aggregati propone una lettura dal retrogusto un po’ fatalista e auspica massive misure di policy tipo il Pnrr”. L’altra, di approccio microeconomico, cerca di valorizzare le esperienze imprenditoriali e di governo pubblico di successo. “Che non mancano ma si presentano a macchia di leopardo e non hanno ancora la forza di incidere sui dati aggregati. I numeri a nostra disposizione ci incoraggiano però a offrire una visione che auspichi il contagio e la condivisione. E poi alcune evidenze sono sorprendenti: la provincia di Napoli ha una presenza imprenditoriale di gran lunga superiore a quelle di Bergamo e Brescia”.
E se i calcoli fossero ricalibrati per tener conto della superficie antropizzabile (il sud è più montuoso) i dati sarebbero ancor più sorprendenti. “D’altra parte la stessa geografia economica mutuata dalla vetusta ripartizione Istat (Nord, Centro e Sud), appare oggi desueta e inadatta a cogliere le tante nuances territoriali”. Piazzetta Cuccia dixit.