l'analisi

Produttività al palo, il “male italiano” da curare

Luciano Capone

Da trent'anni l'Italia fa peggio del resto d'Europa. Come segnala la Banca d'Italia, la produttività stagnante è il problema fondamentale del paese. Perché Meloni non propone a Panetta di studiare una strategia di lungo termine per uscire dalla palude?

Qualche settimana fa, Fabio Panetta aveva dedicato il suo primo discorso da governatore della Banca d’Italia al problema fondamentale dell’Italia: “La nostra economia soffre da oltre due decenni della stagnazione della produttività del lavoro, a fronte di un aumento annuo dell’1 per cento nel resto dell’eurozona”. È la stagnazione della produttività a partire dagli anni Novanta quella che gli economisti Luigi Zingales e Bruno Pellegrino, in uno studio di qualche anno fa, avevano battezzato il “male italiano”. E la diagnosi è la stessa che fa Panetta, basandosi su analisi di Palazzo Koch, a proposito della stasi della produttività totale dei fattori: “Fu allora (negli anni Novanta) che l’economia italiana cominciò ad accumulare ritardi: dapprima nelle tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni e successivamente in quelle digitali e nella dotazione di capitale immateriale, creando le condizioni per la bassa crescita”.

 

La diagnosi del governatore ora si arricchisce di un nuovo studio della Banca d’Italia. L’autrice, Rosalia Greco, disseziona la produttività italiana analizzando sia i vari settori sia facendo un confronto con gli altri paesi europei. Il quadro degli ultimi vent’anni è desolante: dal 2000 la dinamica della produttività del lavoro in Italia è stata molto più bassa rispetto ad altri paesi europei, pur in un contesto di rallentamento globale della crescita della produttività. “Negli ultimi vent’anni, l’output è cresciuto a un ritmo molto più lento in Italia che in Germania, Francia, Spagna e nell’intera area dell’euro (0,32 per cento annuo in Italia nel periodo 2000-2022, contro 1,21 per cento in media nell’area dell’euro) – dice la ricercatrice –. Il principale fattore che incide negativamente sulla crescita del prodotto in Italia è la debole dinamica della produttività del lavoro”. Che, infatti, è anch’essa circa un quarto della media dell’eurozona (0,25 per cento contro 0,84 per cento).

 

Sotto la superficie stagnante dell’economia italiana, però, qualcosa si muove. Ci sono correnti che mostrano un certo dinamismo. In particolare nel periodo 2014-19 (l’analisi si ferma a prima del Covid), dopo l’opera di distruzione e riallocazione delle risorse dovuta alla crisi finanziaria, alcuni settori industriali hanno registrato una crescita della produttività superiore a quella di tutti gli altri paesi europei: si tratta di settori manifatturieri esportatori o, comunque, fortemente esposti al commercio internazionale. Al contrario, nei servizi la produttività è stata stagnante per venti anni.

 

La palude non è insomma il destino ineluttabile dell’economia italiana. Ma bisogna agire, perché il rischio è che il paese venga risucchiato da forze che funzionano come sabbie mobili. Il principale fattore negativo è il declino demografico che renderà, nella migliore delle ipotesi, nullo il contributo all’economia dell’occupazione. L’altro, di conseguenza, è l’enorme debito pubblico che peserà su un numero minore di spalle di gente che lavora. L’unica via per la crescita è quindi l’aumento della produttività. Che non è impossibile, come dimostrano i dati della Banca d’Italia sui settori manifatturieri più dinamici. Ma come fare?

 

Servono ovviamente più investimenti, ma ricordando che a inizio anni duemila gli investimenti sono stati analoghi a quelli dell’area euro eppure la produttività è rimasta ferma: perché gli investimenti in Italia erano concentrati nelle costruzioni invece che in macchinari e beni immateriali. In sintesi, a livello di policy, serve più Industria 4.0 e meno Superbonus. Ma, soprattutto, servono riforme: più concorrenza e fusione di microimprese nel privato, più efficienza della Pubblica amministrazione e in particolare della giustizia civile.

 

Del “male italiano” si parla in Regno Unito, dove la classe dirigente britannica alle prese con un declino economico si è posta l’obiettivo di medio termine di non fare la nostra fine (“La produttività sarà la mia ossessione”, ha detto il leader del Labour Keir Starmer). Ma non se ne parla affatto in Italia, eccetto che in qualche studio o discorso del governatore della Banca d’Italia. Siccome Giorgia Meloni lo voleva ministro dell’Economia, perché non chiede a Panetta, e altri in grado di farlo, di lavorare a una strategia di lungo termine per la produttività?

 

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali