la protesta

Turismo e commercio: perché stavolta lo sciopero è giustificato

Dario Di Vico

Non possiamo continuare a sostenere che in Italia il livello dei salari è fermo da anni e si è perso consistente potere d’acquisto e poi lasciare che l’ultima volta che si è firmato un contratto nazionale dei lavoratori del commercio risalga addirittura al lontano 2015

Manzonianamente questo è un contratto che s’ha da fare. Non possiamo, infatti, continuare a sostenere che in Italia il livello dei salari è fermo da anni su anni e si è perso consistente potere d’acquisto a causa dell’inflazione e poi lasciare che l’ultima volta che si è firmato un contratto nazionale dei lavoratori del commercio risalga addirittura al lontano 2015. Oggi i sindacati di categoria Filcams, Fisacsat e Uiltucs hanno indetto uno sciopero generale e manifestazioni in cinque città d’Italia per tentare di sbloccare la situazione e riaprire il tavolo. Ma non è uno sciopero-spallata, i lavoratori del terziario non sono tute blu abituate agli strappi, la stragrande maggioranza dei punti vendita resterà aperta e invece con tutta probabilità le piazze saranno coronate da successo. Contraddizioni di un sindacato con più organizzazione che consenso.

 

Ma stavolta è difficile avanzare obiezioni davanti a uno sciopero più che giustificato e che interessa 5 milioni di lavoratori (i metalmeccanici sono solo 1,5 milioni) perché oltre il commercio riguarda la ristorazione, gli alberghi, le agenzie di viaggio e il resto del terziario di mercato. Le controparti datoriali, Confcommercio e Federdistribuzione sono le principali, hanno il braccino corto e sono preoccupate di un forte incremento del costo del lavoro, i sindacati chiedono di recuperare l’Ipca e da qui il dialogo tra sordi.

 

Il mondo del commercio come il resto dei servizi è al centro di profonde trasformazioni tecnologiche e organizzative e quindi in linea di principio un negoziato generale con i lavoratori avrebbe molta carne da mettere al fuoco, potrebbe essere una sorta di negoziato di sistema. Purtroppo però la sfida verte su un solo focus - l’aumento retributivo - e quindi in ogni caso non ne verrà fuori una moderna e condivisa strumentazione di regole utili a far fronte ai cambiamenti di cui sopra e magari a mettere al centro la produttività. Le parti in gioco non hanno una cultura sindacale così larga e di conseguenza guardano solo all’entità dell’aumento salariale. Hic Rhodus hic salta.

 

La novità, se vogliamo chiamarla così, però è che in questa situazione di stagnazione dei salari e di accresciuto peso dei servizi (si pensi solo a quanto l’andamento del turismo ha condizionato il Pil italiano del 2023) il contratto del terziario non è più solo una mera questione di categoria, una disputa minore. E’ diventato un tema estremamente serio e forse troppo importante per lasciarlo gestire a rappresentanze dalla visione miope e dalla condotta sciatta. Non si può pensare che le relazioni industriali siano una formula tutto sommato vincente nella manifattura (che rinnova con buona regolarità i contratti e sforna innovazioni come il welfare aziendale e la settimana corta) e restino invece uno strumento antiquato nei servizi perché di questo passo a soffrirne sono l’economia stessa e la creazione di valore.

 

La fotografia che ci resta negli occhi è, infatti, quella di terziario low cost che rischia di fare la differenza in negativo con i nostri partner europei. Poca produttività, tanto part time involontario, salari bassi e aziende disperatamente alla ricerca di un equilibrio nel conto economico. In più c’è il rischio che in quest’assenza di relazioni industriali moderne anche nella grande distribuzione, vista la delegittimazione dei sindacati confederali, prendano corpo i fantasmi della logistica padana dove i Cobas monopolizzano la rappresentanza della nuova forza lavoro straniera, portano il conflitto alle estreme conseguenze e alla fin fine si muovono con l’unico obiettivo di distruggere valore.

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