un bilancio
Superbonus: il 2024 sarà un anno di feroci contenziosi
Il governo prepara un decreto per gestire l'uscita dalla misura più produttiva e/o devastante per pil e debito. Ma manca la chiarezza sui numeri e manca soprattutto un piano con idee sostenibili per coniugare edilizia e crescita
Il 2024 sarà un anno di feroce contenzioso da Superbonus tra famiglie, condomìni, imprese e fornitori: il decreto legge che il governo varerà in settimana per consentire il completamento di una certa quota dei lavori in corso (l’ipotesi più accreditata è che potrà ultimare l’intervento chi è già arrivato al 70 per cento) dirà l’ultima parola su quanto esteso sarà questo contenzioso. I bilanci di centinaia di imprese nascondono crediti fiscali bloccati capaci di mandarle a picco e un giro fra le assemblee di condominio rende l’idea del gioco del cerino in corso. Dai numeri Enea – unico ente pubblico che ha fornito dati seri e regolari – risultano da completare 15 miliardi di euro di lavori ammessi a detrazione, 13 nei condomìni. L’Ance, associazione nazionale costruttori, stima ci siano 30 mila cantieri sospesi con il coinvolgimento di 200 mila famiglie.
Il contenzioso non è, però, l’unica grana in arrivo dal Superbonus. Il 110 per cento fu dall’inizio un incentivo sfrontato per intensità e potenziale distorsivo dei prezzi delle ristrutturazioni. Ma anche misura di furbizia keynesiana, deficit contro crescita proprio mentre l’Unione europea sospendeva il Patto di stabilità e per di più aggiornata agli obiettivi della decarbonizzazione, pure cara a Bruxelles. Avessimo destinato quella montagna di risorse a infrastrutture, avremmo impiegato venti anni a ottenere gli stessi effetti sull’economia. Il Superbonus fu decisivo nel record di pil che ci portò sul tetto d’Europa nel biennio 2021-2022. Mario Draghi, pur essendone un detrattore, non lo cancellò e trasformò in dividendo politico europeo il pil che aveva generato. Il modello econometrico di Istat attribuisce al Superbonus tra 1,4 e 2,6 punti di pil aggiuntivo in quel biennio (audizione del 24 maggio 2023) mentre l’Ufficio parlamentare di bilancio – che non è stato generoso nelle simulazioni per la stima “larga” dei lavori che si sarebbero fatti anche senza incentivo – gli attribuisce almeno un punto di pil. Da un terzo a metà del pil 2022 (+3,7 per cento), insomma, è stato effetto-Superbonus.
Nessuno a Palazzo Chigi o al Mef dice quanto sarebbe utile – oggi più di ieri, dopo l’epilogo del Mes – presentarsi in Europa non solo con i conti in regola sul debito, ma con un pil robusto che da solo incute rispetto. L’approccio politico muscolare caro a leghisti e FdI produce guai nel teatro continentale, tanto più se ci si presenta con il pallido pil italiano degli ultimi venti anni. Meloni e Giorgetti non hanno messo in campo alcuna politica sostitutiva del Superbonus per la spinta al pil; nonostante il successo finale sulla revisione, il governo ha pure rallentato di altri dodici mesi l’avvio del Pnrr che poteva esserne il sostituto nel 2024. Se dici a un sindaco – per un anno di fila – che gli stai per togliere i soldi, lui il cantiere non lo apre. C’è da augurarsi che l’incertezza finisca presto, con il decreto Mef contenente l’elenco dei progetti sopravvissuti e con il decreto legge Fitto che a gennaio darà indicazioni – vedremo quanto solide – su come rifinanziare i progetti stralciati. La legge di Bilancio sul lato crescita è il deserto e non sono le promesse sul Ponte sullo Stretto a cambiare lo stato di cose. L’ossessione del pil come priorità, che aveva caratterizzato il centrodestra di Silvio Berlusconi, è smarrita. I previsori nazionali e internazionali, a partire dalla Bankitalia, rivedono al ribasso le stime per il 2024, segnato dalla caduta degli investimenti e dal venir meno degli incentivi all’edilizia. Il comitato di difesa del Superbonus proposto da Giuliano Ferrara potrà contribuire a un’operazione verità più della commissione d’inchiesta proposta dalla maggioranza sulla scorta della campagna a senso unico di Meloni e Giorgetti che, per calcolo politico, hanno rappresentato il maxincentivo fiscale come il padre di tutti i mali. Quella commissione rischia di essere la terza fonte di grana per Meloni. Soffiare sul fuoco, magari con l’idea di spegnere poi l’incendio, non serve al governo.
Servirebbe invece un’analisi condivisa per fondare su dati oggettivi e completi la exit strategy da una saga che da tre anni e mezzo tiene l’Italia appesa a mezze verità, bugie, non detti, previsioni inattendibili e una catena infinita di errori grossolani. Ho usato per primo la parola Superbonus il 6 maggio 2020 sul Sole 24 Ore per anticipare i contenuti di una misura del tutto inaspettata e forse non sono del tutto neutro. Ma non ci ho messo il copyright e quindi non sono entrato a far parte dell’Italia che si è arricchita con il Superbonus: banche, piattaforme digitali, progettisti, intermediari, industriali dei materiali, costruttori spesso senza alcuna qualifica (si veda Il Foglio del 16 novembre). Un bilancio del Superbonus non può non partire, però, dall’operazione verità di Giancarlo Giorgetti, quando, il 12 novembre 2022, dopo mesi di silenzi, omissioni e mezze parole del Mef e della Ragioneria generale dello stato, è andato in Parlamento a dire che c’era un “buco” nei conti pubblici di 37,8 miliardi. E’ la differenza fra minori entrate previste e minori entrate a consuntivo riportate alla voce Superbonus. Si è andato ancora ingrandendo: Giorgetti ora parla di 100 miliardi di costo totale e di altri 20 miliardi di deficit 2023 non previsti. Ottanta miliardi (che ora diventano 100) sono già accollati al bilancio dello stato nei prossimi quattro anni. Ma questo vale solo per il calcolo del debito e per gli effetti di cassa, non per il deficit, perché a dare una mano al governo su questo fronte è stato il parere Eurostat del 1° marzo 2023: modificando le regole per i bonus edilizi – che vanno contabilizzati tutti nell’anno di avvio degli interventi – ha arretrato 80 (ora 100) miliardi di maggiori costi sugli anni 2021-2022 prima e sul 2023 ora. Si sono gonfiati i deficit degli anni passati in cui il Patto di stabilità era sospeso e crescerà anche il 5,3 per cento previsto per quest’anno, facendo pulizia e liberando nuovi spazi di deficit per gli anni prossimi. Finora da Bruxelles c’è stata tolleranza notarile verso queste operazioni retroattive imposte da Eurostat e così dovrebbe essere per il 2023. Resta il merito di Giorgetti e Meloni nell’aver evitato il rischio di dissesto per la finanza pubblica, se non fossero intervenuti con la brusca interruzione di fine 2022.
C’è un altro tema: il vero deficit generato dal Superbonus, considerando le imposte (Iva, Irpef, Ires) tornate per i maggiori investimenti. Via Venti Settembre ha sempre tenuto basso questo gettito, interpretando prudentemente le regole di contabilità e quantificandolo intorno all’11-12 per cento delle minori entrate prodotte dalla norma, mentre anche gli studi più prudenti (Dottori commercialisti e Cresme) hanno sostenuto che vale almeno il 33-34 per cento. Non contabilizzato alla voce Superbonus, una fetta di quel gettito aggiuntivo è finita nell’extragettito generale straordinario (23 miliardi di Iva) che nel 2022 è andato ad alimentare 65 miliardi di decreti legge Aiuti per gli sconti sui rincari di bollette. Il ministro Giorgetti, a quei tempi allo Sviluppo economico, ha poi fatto il decreto legge Aiuti quater appena insediatosi al Mef.
D’altra parte, sul tema Superbonus la Ragioneria non è mai stata in palla. Nella relazione tecnica del primo decreto (34/2020) il costo netto per il biennio 2020-21 era quantificato in 11.836 milioni con la motivazione che l’utilizzo del Superbonus, nelle scelte dei contribuenti, avrebbe risposto alla stessa logica dell’Ecobonus 65 per cento sia pure con una maggiorazione dei casi del 50 per cento. Sulla cessione dei crediti, si sosteneva che solo la metà dei crediti sarebbe stato ceduto e non avrebbe comunque avuto impatto sui conti. Proprio quella novità invece cambiò tutto, in termini di beneficio e incentivo per i contribuenti e poi di allarme per le casse dello stato. Anche la crescita degli investimenti in costruzioni nei sei documenti di finanza pubblica (Def e Nadef) del triennio 2020-2022 è stata sempre sottostimata. Nel Def 2021 l’errore previsivo è di 12,9 punti percentuali. Ma il tratto caratterizzante la storia del Superbonus è un metodo politico fatto di strappi, con 28 modifiche parlamentari alla norma in 40 mesi, sempre maturati in un contrasto fra Mef e Parlamento. Il Parlamento proponeva una proroga o un ampliamento, il Mef si opponeva (senza fornire pubblicamente dati sugli effetti), il Parlamento tirava dritto (compresi Lega e FdI allora all’opposizione). Mai un dibattito pubblico sui dati, mai una riunione di maggioranza. Merito del governo politico – disse Meloni – aver posto fine a questo teatro. Già Mario Draghi aveva detto che il contributo al 110 per cento era iniquo sul piano fiscale e portatore di truffe e distorsioni nella catena dei prezzi, ma il Parlamento a maggioranza M5s aveva tirato dritto e nello scontro epico sulla proroga delle villette in legge di bilancio 2022 aveva fatto capire chi comandava.
Il Superbonus non era nato dal nulla. La stagione dei bonus edilizi, inaugurata da Romano Prodi nel 1998, racconta uno straordinario gradimento di incentivi articolati, dal 36 per cento all’85 per cento. Tra il 1998 e il 2020 (prima del Superbonus) 21,2 milioni di interventi hanno prodotto investimenti per 350 miliardi. Mezza Italia li ha usati, non solo i ricchi. Gli incentivi non sono mai diventati, però, una politica stabile con obiettivi quantitativi definiti e misurabili. Sono diventati invece una bomba fiscale fuori controllo quando il M5s nel 2020 ha imposto che la cessione del credito venisse estesa a tutti i bonus. Nel 2021 gli investimenti da bonus edilizi sono balzati da una media del periodo precedente di 28 miliardi annui a 67 miliardi e poi a 94 nel 2022, per poi riscendere a 72 nel 2023.
Il Superbonus ha prodotto anche altri effetti di cui tener conto in un bilancio: 400 mila posti di lavoro, il 70 per cento di quelli persi in edilizia nei dodici anni precedenti. Se si guardano ai dati delle casse edili – che registrano i contributi pagati dalle imprese e i lavoratori effettivamente iscritti – e non a quelli dell’Istat, la crescita dell’occupazione in edilizia è di 538 mila nel triennio 2020-2022 (dato Cresme).
L’impatto energetico è stato, in termini di riduzione di consumi, di 0,78 milioni di Tep al 2022 dal solo Superbonus, 1,33 Mtep considerando anche gli altri bonus fiscali. Obiettivi europei raggiunti per gli edifici civili e contributo del 55 per cento ai risparmi prodotti dalle politiche nel totale dei settori. Enea stima, dal complesso di queste politiche, una riduzione totale delle emissioni di CO2 di circa 6,5 milioni di tonnellate, con un risparmio di 1,3 miliardi in bolletta al netto delle oscillazioni di prezzo dei prodotti energetici.
L’Enea ha scritto, tuttavia, nel Rapporto annuale sulle detrazioni fiscali del 2022 (poi confermato nel Rapporto 2023 del 14 dicembre scorso), che il Superbonus ha un costo unitario per KWh/anno risparmiato doppio rispetto all’Ecobonus 65 per cento. Pesa troppo la quota edilizia dei “cappotti” che non sempre producono risultati efficienti in termini energetici. E’ la conferma che occorre cambiare strada, aumentando la quota impiantistica e puntando sull’innovazione tecnologica (per esempio nella geotermia).
Sarebbe un palliativo, però, il ritorno al vecchio Ecobonus 65 per cento, come propone il Pnrr con uno stanziamento di 1.381 milioni, un raggio di azione limitato a edifici pubblici e abitazioni di famiglie a basso reddito e un obiettivo minimale di “migliorare l’efficienza energetica di almeno il 30 per cento”. Misure che rinviano il problema, non lo affrontano: l’Ecobonus 65 per cento portava tremila ristrutturazioni l’anno contro le 200 mila del Superbonus. Ci vorrebbero trenta anni di questo passo per raggiungere gli obiettivi della direttiva Ue sulla casa green. Serve invece un piano pluriennale di decarbonizzazione del patrimonio immobiliare che affronti la questione in modo credibile: incentivi sostenibili per lo stato ma stabili nel tempo, comprensibili per gli italiani, capaci di attrarre capitali privati, accrescere il valore degli immobili riqualificati, produrre impatti su consumi e bollette. Un piano che preveda controlli seri ma porti pil buono, verde, motore della trasformazione green di un settore che si è rivelato ancora fondamentale per l’Italia. Non si può lasciare questo compito a ministri ostili o distratti o a partiti scettici. Spetta a Palazzo Chigi battere un colpo e dire che l’Italia in Europa – dopo il Mes – ci vuole stare da protagonista.