Verso le europee
Sure per il clima, il modo migliore per unire lavoro e transizione
L’Europa traina il carro globale del contrasto al cambiamento climatico e fare il leader comporta costi potenzialmente pesanti in termini di aggiustamento industriale e occupazionale. Ma dopo la pandemia tutti si sono dimenticati del meccanismo Sure
La bocciatura del Mes da parte della “strana” maggioranza FdI-Lega -M5s) significa che è partita la campagna elettorale, con alcuni partiti che agitano lo spauracchio dell’Europa “austera”. Non c’è un’altra chiave di lettura per una decisione che per altri versi è sicuramente masochista mentre ancora si stanno trattando dettagli fondamentali del Patto di stabilità e del nuovo Patto sull’immigrazione. È quindi opportuno definire i programmi di chi invece crede nell’Unione europea e nel suo ruolo nel mondo. In molti sostengono che alle prossime elezioni europee si voterà – tra le altre cose – pro o contro una seria lotta al cambiamento climatico. La recente Cop28 di Dubai, la conferenza dell’Onu sul clima, ha reso chiaro che l’Europa traina il carro globale del contrasto al cambiamento climatico e se non ci fosse l’Europa quel carro sarebbe probabilmente fermo. Ma fare il leader comporta costi potenzialmente pesanti in termini di aggiustamento industriale e occupazionale.
Da tempo l’Unione europea con il “Green Deal” ha adottato la crescita verde quale strategia fondamentale. Il pacchetto Fit for 55 ne è la declinazione pratica e si compone di 17 proposte ancora in fase di negoziazione in Consiglio Ue. Uno dei temi più controversi riguarda la revisione del sistema di perequazione europeo delle emissioni di gas, l’European Emissions trading system (Ets), secondo il quale chi inquina paga per ogni tonnellata di CO2 emessa (al netto di una franchigia). La proposta della Commissione europea prevede una riduzione delle emissioni di almeno il 55 per cento entro il 2030 (rispetto al 2005). I settori attualmente coinvolti sono i grandi impianti industriali ed energetici e il trasporto aereo, ma con la revisione si propone l’estensione graduale in tre anni dell’Ets alla navigazione marittima, ai distributori di combustibili per il trasporto stradale e alla climatizzazione degli edifici (una sorta di mini-Ets). Un’altra proposta è il Carbon border adjustment mechanism (Cbam), con cui si vuole contrastare la delocalizzazione della produzione e la concorrenza sleale da parte di imprese che operano in paesi terzi con obiettivi climatici meno ambiziosi.
Inoltre, con l’obiettivo di invertire il trend delle emissioni del trasporto su strada, che continuano a crescere (+25 per cento rispetto al 1990) e sono responsabili del 20 per cento delle emissioni totali dell’Ue, la Commissione propone l’eliminazione graduale delle nuove immatricolazioni di veicoli con motore a scoppio entro il 2035. Infine, la controversa direttiva sull’edilizia prevede il miglioramento della classe energetica degli edifici residenziali in modo molto rapido. Sebbene si tratti di misure ampiamente negoziabili (e già negoziate), esse sono necessarie a contrastare le conseguenze di un cambiamento climatico privo di regole. Ma se non si trova il modo di compensare chi paga il prezzo più alto di queste misure, c’è il rischio che una coalizione dei contrari alla transizione ecologica vinca le elezioni in molti paesi. In Italia, i partiti di destra già si sono espressi contro i costi della transizione spesso con il finto argomento dell’Europa tecnocratica, come se certi temi non fossero necessariamente tecnici. In sede Ue, per mitigare l’impatto sociale dell’estensione del principio “chi inquina paga” è stato istituito un “fondo clima” di 72 miliardi di cui 7,5 miliardi per l’Italia, un ammontare sicuramente insufficiente. Ma più che il fondo clima, uno strumento che sarebbe molto efficace per sostenere il lavoro e i redditi si chiama Sure “Support to unemployment risks in emergency”, è il fondo europeo che ha pagato per i sussidi e la cassa integrazione durante la pandemia. L’Italia ne ha beneficiato nel 2020-2021 per ben 27,4 miliardi su un totale europeo di 100: ha aiutato milioni di lavoratori dipendenti e autonomi e 850 mila piccole imprese.
Sure è stato il prodromo del più noto Pnrr, ed è stato possibile per l’urgenza della pandemia ma anche perché era basato su un prestito europeo che non ha richiesto le odiate “condizionalità”, disinnescando ex ante qualunque timore di cessione di sovranità, vera o presunta, esplicita o occulta. Lo vediamo oggi nel dibattito (francamente lunare e tutto italiano) sul Mes quanto le “condizionalità” siano lo spauracchio a cui si attaccano i partiti che non vogliono la cooperazione europea attraverso i fondi comuni. Eppure questo tipo di fondi di debito comune sono l’unica via con cui l’Europa potrà in un futuro finanziare le iniziative di difesa comune, di gestione dell’immigrazione, di politica industriale su scala europea e proprio di contrasto al cambiamento climatico. Dopo la pandemia tutti si sono dimenticati di Sure, ma Sure può e deve diventare un meccanismo di protezione del lavoro permanente, lo disse già Mario Draghi nel 2021 al Social Summit di Oporto, uno strumento fondamentale di assicurazione dei cittadini europei contro i timori della transizione ecologica. Per primi i partiti socialdemocratici, ma anche i popolari europeisti che temono le destre estreme, dovrebbero proporlo con forza.