L'analisi
Genova e Venezia sono affamate di futuro. Il risveglio delle repubbliche marinare
Tra capitalismo di relazione e infrastrutture, la nuova leadership di Confindustria apre la strada a diversi protagonisti. Meloni sfida la Lega nel Veneto, con Zaia che chiede di essere rieletto il prossimo anno per la terza volta. Sullo sfondo, le olimpiadi invernali del 2026
Hanno vissuto per decenni in una bolla che si è andata via via sgonfiando. Genova vedova del capitalismo di stato, ogni anno perde migliaia di abitanti. Venezia compiaciuta della propria bellezza sfolgorante e fanée, si trasforma in una trappola acchiappa-turisti da dove fugge chi non è in grado di sfruttarla. Due città orgogliose del proprio passato, in lotta con il proprio presente e incerte sul proprio futuro. Le antiche repubbliche marinare cercano un rilancio, vogliono recuperare tutto il lustro perduto, tornare sotto i riflettori della storia, della politica, dell’economia. Nell’un caso e nell’altro la data fatidica è il 14 agosto 2018: il crollo del ponte Morandi è diventato il momento della verità e della svolta, per Genova è evidente, per Venezia si tratta dell’ultima onda d’urto a scuotere l’equilibrio tra eredità spirituale e potere materiale.
Oggi qualcosa si muove e parte proprio da quel mondo dell’impresa che sembrava un Oblomov accasciato sul divano ammuffito come il personaggio di Ivan Goncarov. Il cambio al vertice della Confindustria offre l’occasione per un ritorno che potrebbe diventare una ripartenza. È presto per il solito totopresidente e non è tanto questo che colpisce nel chiacchiericcio dell’anti-vigilia, quanto la voglia di riscatto che si nasconde dietro l’attivismo, non solo mediatico, di vecchi e nuovi protagonisti. I riflettori s’accendono a est su Carraro, su Marchi, sulla cordata di industriali che s’è aggiudicata i giornali veneti venduti dalla Gedi di John Elkann; mentre a ovest emerge una coppia che rappresenta l’ultima metamorfosi dell’industria ligure: Gozzi che cavalca il sogno di un “acciaio verde” e Garrone che dal petrolio è diventato il principe del vento. Ma tutto questo è solo l’epilogo di una storia ben più complicata.
Secondo una tesi che va per la maggiore, il declino di Genova coincide con la crisi e in alcuni casi la caduta, prima progressiva poi rovinosa, dei suoi tre pilastri industriali: l’Italsider, l’Ansaldo e il porto. C’è del vero, ma non è tutta la verità. Una interpretazione meno ovvia scaturisce dal libro di Sergio Luzzatto, storico multinazionale tra la Sorbona e l’Università del Connecticut, genovese di nascita, che per raccontare la storia delle Brigate rosse parte proprio dalla sua città. Leggendo il suo “Dolore e furore” emerge quanto il terrorismo abbia dato un colpo micidiale al “sistema Genova” e all’alleanza tra aristocrazia operaia e capitale pubblico che ne era stato il nerbo prima di diventare l’avversario numero uno della galassia “gruppettara” e dalle Brigate rosse. Se l’uccisione nel 1979 di Guido Rossa, segretario della sezione del Pci all’Ansaldo, spezza l’ambiguo filo che ancora legava la sinistra legale e legalitaria con quella sovversiva (l’alibi dei “compagni che sbagliano”), quell’evento rappresenta anche il culmine di un decennio che ha scosso dalle fondamenta la vita civile. È allora che “la città divisa” va in frantumi difficili da ricomporre persino dopo una tragedia di tutt’altra natura come il collasso del viadotto sul Polcevera. Di nuovo, nemmeno questa narrazione è tutta la verità, ma c’è del vero che dura: la guerriglia urbana durante il G8 del luglio 2001 ha lasciato ferite aperte tanto che ancor oggi viene annodato un filo che rimanda alla “rivolta” del 1960 rimasta nel mito della sinistra o allo scontro sindacale alla Chicago Bridge del 1968, brodo di coltura del gauchisme, anche quello più violento.
Allora Genova era al massimo della propria espansione, attirava lavoratori soprattutto dal sud Italia e nel calore degli altiforni ribolliva il malessere sociale e lievitava la protesta. Nel 1971 il comune aveva raggiunto quasi 900 mila abitanti registrati dall’Istat, scesi a 678 mila nel 1991, poi un continuo scivolare in basso con una nuova caduta dal 2011 nel pieno della grande crisi economica per arrivare a 561 mila nel 2022. La città si dimezza, non perché si espande nel territorio, infatti non cresce nemmeno la provincia arrivata a 813 mila abitanti l’anno scorso rispetto agli 883 mila nel 2001. La demografia è uno specchio sociale e un tale declino va al di là della curva discendente delle nascite. “Questi dati non stupiscono, ma vedono il consolidamento di una tendenza che è destinata a peggiorare. Il momento più critico sarà attorno al 2050, quando perderemo l’ultima parte dei nati nel baby boom”, sostiene Enrico Di Bella, professore associato di Statistica sociale al dipartimento di Scienze politiche dell’Università degli Studi di Genova. Per Igor Magni, segretario della Camera del lavoro, “è fondamentale puntare sul comparto manifatturiero e l’industria”. Ma ciò richiede servizi e infrastrutture. Non c’è alta velocità né con Roma né con Milano. Le autostrade che portano in Piemonte e in Lombardia sono intasate. Il Terzo Valico, il passante ferroviario che dovrebbe consentire i collegamenti veloci collegando quel che resta il maggior porto del Mediterraneo con Rotterdam, accumula ritardi. La talpa scava a fatica, ci vogliono mesi invece che settimane e il cronoprogramma del committente Rete ferroviaria italiana e del general contractor Cociv non viene rispettato.
L’opera è molto difficile anche per ragioni geologiche, tuttavia se questo ritmo da lumaca dovesse continuare per gli altri 1.250 metri che congiungono il lato ligure a quello piemontese, non basterebbe un decennio, protestano i pessimisti. Invece, bisogna finire al più presto: quest’anno per il nodo genovese e il 2026 per l’intera grande opera. Il “modello” che ha consentito la ricostruzione del ponte in tempo record non è diventato il nuovo paradigma generale, ma il colpo di reni resta come punto di riferimento. La polemica politica s’è concentrata sulla semplificazione delle procedure e la riduzione dei controlli anziché sul cuore della questione: far collaborare autorità pubbliche ad ogni livello, imprese private, cittadini, insomma un “sistema Genova” al quale ha fatto appello il sindaco Marco Bucci che nel 2017 aveva strappato l’amministrazione alla sinistra per la prima volta dalla elezione diretta del primo cittadino. Manager, con una lunga esperienza negli Stati Uniti, alla 3M e alla Kodak, si è presentato alla guida di una lista civica di centrodestra e ha superato al ballottaggio il candidato di centrosinistra Gianni Crivello. Una prova superata anche due anni fa.
Il brusco risveglio dopo il crollo e la speranza di una ripartenza si rispecchiano in un nuovo protagonismo dell’élite economica sulla scena nazionale e internazionale. Gianluigi Aponte, tra i primi al mondo nei trasporti marittimi, che recentemente ha acquistato Italo, investe nel porto di Genova, ha discusso con le autorità locali i suoi grandi progetti e, si dice, potrebbe comprare dalla Gedi il Secolo XIX, lo storico quotidiano per più cent’anni in mano ai Perrone. Ma quel che riempie le cronache è il duello per la presidenza della Confindustria tra due esponenti di punta dell’industria. Antonio Gozzi, numero uno della Duferco e presidente di Federacciai, si è mosso per primo con un progetto di rilancio dell’Italia manifatturiera anche grazie a una rappresentanza di alto profilo, non più “professionisti della Confindustria” come li chiamava Gianni Agnelli, né imprenditori senza nemmeno una fabbrica.
A sfidarlo Edoardo Garrone che insieme al fratello Alessandro ha trasformato la Erg, una delle principali aziende petrolifere italiane, in un campione delle energie rinnovabili: abbandonati gli idrocarburi, ha messo le ali al vento, letteralmente perché il gruppo è leader nell’energia eolica. La famiglia Garrone ha mollato anche la Sampdoria per concentrarsi sul nuovo nocciolo energetico. Edoardo, presidente del Sole 24 Ore, dopo le due esperienze da vicepresidente della Confindustria con Emma Marcegaglia e Luca di Montezemolo, si è tenuto lontano dalla ribalta. Per ora non ha annunciato la propria candidatura, ma è sostenuto oltre che dalla Marcegaglia, da un solido parterre lombardo: Diana Bracco, Tronchetti, Confalonieri, Rocca, Dompè. Con Gozzi, secondo le indiscrezioni, l’ex presidente Antonio D’Amato e i siderurgici bresciani guidati da Giuseppe Pasini (Feralpi), però il suo appello industrialista trova orecchie sensibili anche tra i chimici e i farmaceutici.
Sia Gozzi sia Garrone esprimono dunque due assi paralleli nello storico triangolo industriale. Ma il nord est che tanti voti e quote dà alla Confindustria non vuol restare in ombra. Certo, in questi anni s’è indebolita la sua rappresentanza, priva com’è ormai di grandi famiglie dal profilo nazionale, anzi internazionale, come i Marzotto, mentre anche i Benetton colpiti dal crollo del ponte Morandi sono assorbiti dal complesso passaggio generazionale e da una ridefinizione del loro profilo industriale. Nel frattempo sono cadute come birilli le banche locali (si pensi al crac della Popolare di Vicenza guidata da Gianni Zonin). Il candidato in pectore per la Confindustria è Enrico Carraro, industriale meccanico (l’azienda di trattori è stata fondata nel 1910 ed è sempre rimasta in famiglia), presidente dell’associazione veneta. Tuttavia in una regione in cui l’individualismo prevale da sempre, priva anche in politica di esponenti di peso come Bruno Visentini, Gianni De Michelis, Toni Bisaglia, riuscirà a trovare sostegni sufficienti a creare una force de frappe nazionale?
L’intero scenario, economico, sociale e politico, è in movimento. Giorgia Meloni insidia il potere della Lega attaccando direttamente Luca Zaia che vorrebbe presentarsi l’anno prossimo per la terza volta. Il leghismo mostra segni di smottamento ovunque (Fratelli d’Italia vanta il 33 per cento dei voti contro il 15 della Lega), mentre nella città lagunare il secondo mandato di Luigi Brugnaro, già presidente di Confindustria Venezia, eletto nel 2015 con una lista “né di destra né di sinistra”, scade l’anno prossimo. La sua poltrona fa gola a molti, a cominciare da Zaia. Intanto, si rimescolano gli equilibri economico-mediatici. Prima comunicazione li ha chiamati in copertina “I leoni del Nord est”. Enfasi giornalistica a parte, la cordata che ha acquistato i giornali locali venduti dalla Gedi, è uno spaccato niente male. Ne fanno parte Alessandro Banzato (Acciaierie Venete), Gianpietro Benedetti (Danieli), la famiglia Carraro, la famiglia Curti (Bluenergy), Angelo Mandato (Bioman) e una decina di altre famiglie di imprenditori ed esponenti delle associazioni locali della Confindustria.
Regista dell’intera operazione è Enrico Marchi, presidente della banca Finint e capo della Save che raggruppa l’intero polo aeroportuale del nord est, a cominciare dallo scalo veneziano. “Dalla marca trevigiana al cuore di Venezia, con una casa a due passi dall’Accademia, affacciata sul Canal Grande, in quella Serenissima che, secondo voci di Laguna, lo vedrà anche correre per la poltrona di sindaco. E dinanzi a questa ipotesi lui è solito sorridere di gusto: ‘Manca solo la designazione a Patriarca’, dice”. Così lo raccontava la rivista Forbes esattamente un anno fa. Allora l’operazione Nem (Nord est multimedia) era ancora soltanto un progetto. Nato a Sernaglia della Battaglia (Treviso) è sposato con la veneziana Emanuela Seguso, con la quale ha quattro figli. I due più grandi, Margherita e Giovanni, sono operativi all’interno del gruppo. La famiglia, sempre lei: Marchi ha addirittura battezzato una delle sue amate barche Oikos (famiglia in greco); l’altra si chiama Galantuomo. E’ orgoglioso di quel che ha fatto a Venezia: “Oggi siamo il terzo aeroporto intercontinentale della penisola. Nel 2000, quando sono diventato presidente, era uno dei tanti scali medi. Ma io faccio solo il direttore d’orchestra”.
Adesso si sente pronto a fornire la sua bacchetta anche per ben altre filarmoniche. La Finint, la sua cassaforte, s’è fatta strada con la cartolarizzazione e il mercato dei minibond, ora è divisa in tre rami: finanza, outsourcing dei processi aziendali, logistica e infrastrutture che sono l’ossatura dei nuovi equilibri del potere economico a Venezia come a Genova e non solo, perché il Pnrr resta il più grande boccone mai messo in tavola in Italia dai tempi del piano Marshall. È un giro di affari che dipende in modo completo dalle scelte del governo e delle amministrazioni locali, è un mercato politico o comunque contiguo alla politica, sul quale gioca un ruolo importante il “capitalismo di relazione” che certo non ha molto a che fare con la concorrenza libera e pura, ma è stato difeso anche da Giovanni Bazoli, professore e gran banchiere, il quale si è speso a lungo per l’etica negli affari al fianco del cardinal Martini. “Senza relazioni e competenze personali non si possono comprendere i problemi e le persone che ruotano attorno ad ognuno di essi, e in definitiva è più difficile trovare soluzioni pragmatiche”, è il messaggio lanciato agli studenti della Bocconi, invitandoli a “leggere la grande letteratura”.
La rete relazionale è tesa come corde di violino in vista delle olimpiadi invernali del 2026 a Cortina d’Ampezzo. Sono previste 13 opere in Veneto per un budget di oltre un miliardo di euro tra il nuovo villaggio olimpico a Cortina e la ristrutturazione dell’Arena di Verona. Lo stop alla pista di bob ha rimesso in discussione e in parte ridimensionato la portata degli interventi, ma la partita è aperta e il suo esito può essere determinante, anche per il futuro di Zaia. La Nem che mette insieme Il Mattino di Padova, la Tribuna di Treviso, la Nuova Venezia, Il Messaggero Veneto, il Piccolo di Trieste e il Corriere della Alpi, giocherà le sue carte: vuole dare “voce al nord est” e insidiare il primato del Gazzettino, il giornale più importante, controllato dal costruttore ed editore romano Caltagirone. Anche in questo caso, dunque, come in quello genovese, la concorrenza locale per “l’egemonia” (parola un tempo di sinistra così cara alla nuova destra) diventa una questione nazionale a tutto campo. Le repubbliche marinare sono tornate e si batteranno per sostenere o combattere, ma pur sempre influenzare Roma, come un tempo quando l’Italia non aveva uno stato e tuttavia era una grande potenza.