l'indagine
L'Ilva e l'improvvisazione d'acciao
Come l’Italia populista e antindustriale danneggia la propria economia e fa la fortuna delle multinazionali. Il destino della siderurgia a Taranto. Qualche idea per il futuro
"La domanda di acciaio è un elemento cruciale perché è un buon indicatore della salute dell’economia in quanto riflette la domanda dei settori consumatori, automotive, elettrodomestici, costruzioni, cantieristica navale e molto altro. L’acciaio scorre nelle vene dell’economia, fermarlo significa provocare l’infarto dell’organismo. Nel nostro paese la siderurgia ha un valore essenziale per le nostre caratteristiche strutturali. Siamo un paese povero di materie prime. Ciò rappresenta una ‘condanna’ ad avere un manifatturiero con grande capacità di export per tenere la bilancia commerciale in positivo e poter pagare le importazioni di ciò di cui siamo sprovvisti. Siamo un paese che morfologicamente deve puntare al mondo aperto. La siderurgia è il settore primario del manifatturiero e perdere, dopo l’alluminio, anche la produzione di acciaio significa perdere sovranità industriale. Per questo la siderurgia italiana ha una storia importante ma che riflette tutte le contraddizioni del paese”.
Era l’11 novembre 2019 e così iniziavo due fitte pagine proprio qui sul Foglio, una settimana esatta dopo l’annuncio di ArcelorMittal di voler lasciare l’Italia. Quanto è accaduto dopo è il frutto di improvvisazioni politiche e superficialità. Il lavoro, l’industria e l’innovazione meritano passione e competenza. Ad essi un grande paese dedica le energie migliori.
Breve riassunto delle puntate precedenti
Lo stabilimento di Taranto fu inaugurato dal presidente Saragat il 10 aprile del 1965. Dopo quello di Bagnoli nel 1910, la scelta cadde su Taranto per diverse considerazioni di natura tecnica e logistica. Dalla metà degli anni 70 si procedette al raddoppio del centro siderurgico che portò gli assunti diretti al numero esorbitante di oltre ventimila, e quelli dell’indotto a oltre quindicimila. Il raddoppio estese la superficie della fabbrica. Proprio allora si iniziano a costruire le basi perché Taranto diventi la capitale della contraddizione: nello stesso anno della prima manifestazione contro l’inquinamento, i sindaci dei comuni limitrofi iniziano a modificare i piani regolatori per costruire sempre più vicino alla fabbrica.
Tra inquinamento, crisi produttive e occupazionali e qualche scandalo si arriva alla privatizzazione nel 1995. Dal 1988 viene messa in liquidazione l’Italsider e, nell’ambito del processo di privatizzazioni che investì la siderurgia pubblica, la famiglia Riva acquisì l’acciaieria che prende il nome di Ilva. In un territorio dove convivono Arsenale militare, Cementir, Eni e Ilva a poca distanza, si pensò che con un “padrone” privato sarebbe stato più facile per la magistratura controllare che la produzione dell’acciaio venisse fatta a norma di legge. Il primo biglietto da visita dei nuovi proprietari, invece, fu una politica di gestione della forza lavoro e delle relazioni sindacali molto dura. Al contempo, proprio in quegli anni, la legislazione ambientale divenne più rigorosa e prescrittiva.
La storia dei Riva in Ilva dura 17 anni: terminerà il 26 luglio del 2012, giorno in cui l’area a caldo dell’acciaieria fu posta sotto sequestro a seguito di un’inchiesta della magistratura di Taranto. Le accuse per i vertici aziendali, a vario titolo, erano di disastro ambientale colposo e doloso, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, danneggiamento aggravato di beni pubblici, getto e sversamento di sostanze pericolose. Il processo penale si aprirà solo quattro anni dopo. Nel 2013 arrivò il commissariamento, nel 2015 l’amministrazione straordinaria, nel 2016 il decreto per la vendita, nel 2017 l’aggiudicazione alla cordata Am Investco (in concorrenza con AcciaItalia). Con la chiusura di Piombino, Taranto resta l’unico stabilimento in Italia di produzione di acciaio a ciclo integrale ovvero prodotto dalla combustione di fonti primarie (carbon coke e minerale) di qualità indispensabile per alcuni settori di impiego e che pertanto importiamo in modo crescente. Il resto della siderurgia italiana è da fonti secondarie (fusione di rottame) attraverso forno elettrico.
C’era un’alternativa ad ArcelorMittal?
Arcelor Mittal si era già affacciata nel 2014, insieme ad altre quattro cordate che si volatilizzarono presto. Fu il periodo in cui il governo, dopo aver sostituito il commissario di maggior valore di tutta questa vicenda, Enrico Bondi, pensò di far gestire la partita da Palazzo Chigi da Andrea Guerra e da nuovi commissari. Il governo arrivò a proporci una “nazionalizzazione temporanea” che non aveva né le condizioni giuridiche né una solidità economico-industriale. Come Fim-Cisl ci schierammo apertamente contro quest’ipotesi. Eravamo abituati a vedere manifestazioni di interesse da parte di AM che spesso avevano il solo scopo di entrare nelle “data room” per acquisire informazioni. Ma dal 2016 e il decreto per la gara di vendita si iniziarono a costruire prospettive diverse. L’alternativa ad ArcelorMittal-Marcegaglia-Intesa (AmInvestCo) era rappresentata dalla cordata guidata da Jindal, con Cdp, Arvedi e il fondo Delfin (Acciaitalia). ArcelorMittal offrì 1,8 miliardi di prezzo di acquisto, Acciaitalia 1,2. Jindal tentò un rilancio di prezzo a gara chiusa. Successivamente acquisì lo stabilimento di Piombino. Coloro che sostengono che avrebbe rappresentato un’alternativa più solida sono stati smentiti proprio da quanto è poi accaduto a Piombino dove tuttora si cerca nuovamente un acquirente.
L’accordo del 6 settembre 2018
In piena crisi di governo il ministro Calenda tentò un accordo, ma alcuni aspetti di merito e soprattutto le condizioni politiche attorno al tavolo negoziale non consentirono di andare fino in fondo. Dal governo Gentiloni si passò al Conte 1 che tentò per diversi mesi di invalidare la gara e ritardò ancora la discussione sul piano industriale e ambientale. Il 6 settembre 2018 si arrivò all’accordo sindacale più significativo e importante di tutta la vicenda.
Mi sorprese la mancata firma sul testo da parte del ministro dello Sviluppo economico Luigi Di Maio, a cui eravamo arrivati dopo una trattativa durissima. Anche perché, pochi minuti dopo, lo stesso ministro si attribuì pubblicamente il raggiungimento dell’intesa, come un risultato suo personale e di Giuseppe Conte. L’accordo prevedeva un piano ambientale, in parte poi portato avanti, per raggiungere i migliori standard ambientali della siderurgia a ciclo integrale europea, investimenti per la riqualificazione industriale, l’occupazione. Un totale di oltre 4 miliardi di investimenti.
Ci fu un periodo di lavoro relativamente proficuo, fino alla primavera del 2019. Il calo di domanda d’acciaio in Europa a maggio fu spostato da AM su altri siti europei, confermando la produzione su Taranto, per poi arrivare a chiedere Cassa integrazione a giugno anche in Italia. Tuttavia, mentre l’azienda non era ancora a pieno regime, già si iniziava a volerle addossare tutto ciò che era stato fatto dal 1965 ad allora, a partire dai danni ambientali e sanitari.
Dopo le europee salta tutto
Alle elezioni europee di maggio il Movimento 5 stelle andò molto male, passando al 17,1 per cento dal 32,2 delle Politiche di marzo 2018, e partì la resa dei conti interna. Tentarono di recuperare popolarità con alcuni passi indietro rispetto agli impegni presi e agli accordi sottoscritti. Da giugno 2018 si iniziò a parlare dell’intenzione di rimuovere lo “scudo penale”, introdotto nel 2015. Il 21 giugno ci fu un momento importante: si tenne l’Assemblea generale nazionale di Federmeccanica a Taranto e l’ad di AM, Matthew Jehl disse chiaramente che l’azienda voleva la conferma del quadro giuridico con cui neanche un anno prima si era fatto l’accordo. Pochi giorni dopo, in luglio, il governo Conte 1 approvò il decreto per la rimozione dello scudo penale. Il 31 ottobre, la Camera convertì definitivamente in legge il cosiddetto decreto Salva imprese con la nuova maggioranza del Conte 2. Prima di passare alla Camera, a Palazzo Madama il testo del decreto era stato modificato, sulla base di due emendamenti presentati dal M5s. Va ricordato che lo “scudo penale” non rappresentava un’immunità generale ma valeva solo per gli atti compiuti nell’applicazione del piano ambientale varato dal 2014 e integrato dall’accordo del 6 settembre 2018.
La decisione di Mittal
La decisione di Mittal di voler lasciare l’Italia, comunicando l’intenzione di recedere il contratto di cessione, arrivò il 5 novembre 2019. Un mese prima, a ottobre, la nomina del nuovo ad Lucia Morselli va inquadrata proprio nella direzione di questa scelta. I segnali furono inequivocabili e lo dichiarammo apertamente: quando un gruppo industriale ritira i suoi migliori tecnici e manager, poi deconsolida dal bilancio del gruppo proprio Am invest co Italia (che qualche sprovveduto salutò come una bella notizia) e ri-avoca a sé la struttura commerciale, come si fa a dichiarare “da adesso la strada è tutta in discesa” come fu detto dal governo nel 2020? La cosa singolare è che mentre l’azienda chiariva le sue intenzioni, governo, regione e comune erano sempre più ottimisti.
Lo stato “ci metterà la faccia”
Sono le parole dell’allora premier Conte all’incontro in consiglio di fabbrica. In realtà, nei fatti, si aggravava la situazione in preda alla pura improvvisazione populista: da un lato si utilizzava la retorica anti multinazionale, dall’altro per totale insipienza si stringeva la corda delle varie clausole parasociali per assicurare proprio alla multinazionale una condizione di forza in caso di contenzioso.
Alla fine del 2019 Conte e Patuanelli mollarono la partita al ministro dell’Economia Gualtieri, e si iniziò a parlare di “Stato al 60 per cento”. A marzo 2020 i commissari Ilva in amministrazione straordinaria, che avevano citato in giudizio AM (contro la rescissione del contratto) firmarono, sempre con AM, un accordo per superare l’impasse giudiziaria. Come sindacati ricevemmo il testo del loro accordo tramite il sindaco di Taranto. Era la consacrazione non solo dell’epilogo peggiore ma anche della presa in carico (pubblico) di tutti gli oneri. L’accordo prevedeva, infatti, lo slittamento di tutte le scadenze dell’accordo del 2018 e tanta nuova cassa integrazione che prefigurava una “mezza ilva” con forni elettrici, come ce ne sono già in Italia, definita “green” a scopo promozionale e senza una vera prospettiva di decarbonizzazione nel medio periodo. Complici lockdown e pandemia, riuscimmo a rispondere con uno sciopero di 24 ore solo a giugno. Ci si dimenticava, intanto, che l’investitore, la terribile multinazionale che avrebbe dovuto pagare 1,8 miliardi solo di prezzo di acquisto (e altrettanti in investimenti), si stava garantendo di pagare sempre meno. Nel frattempo aveva chiesto e ottenuto circa 500 milioni di prestito dal decreto Liquidità.
Il 15 aprile 2021 l’esordio della newco “Acciaierie d’Italia” con l’ingresso di Invitalia con il 32 per cento di capitale, mentre il 68 per cento restava in mano ad Arcelor Mittal. Nel 2022 e 2023 la produzione è crollata ulteriormente, l’impianto è quasi fermo e nuovamente insicuro. Siamo sotto i 3 milioni di tonnellate di prodotto annuo in uno stabilimento che sotto i 6 milioni di tonnellate perde. Per capirci, come un ristorante con 1.000 coperti che apparecchi e serva i pasti per un solo tavolo da due. Dopo oltre 10 “prestiti ponte” negli ultimi anni si parla solo di cassa integrazione, e nazionalizzazione. Nel frattempo Arcelor Mittal è ferma ma è altrove.
Anche gli ultimi fermo immagine andrebbero studiati. L’11 settembre il governo firma un memorandum of understanding senza coinvolgere Invitalia. Prevederebbe investimenti per 4,62 miliardi per affrontare la trasformazione energetica degli impianti miliardi, di cui 2,27 provenienti da fondi pubblici europei. Invitalia dichiara di non conoscere la situazione di insolvenza rispetto ai fornitori (gas e non solo) e sulla capacità di centrare gli obiettivi produttivi. Poi salta nuovamente tutto. Assemblea dei soci e cda certificano l’assenza di accordo tra i soci. Sul tavolo vi è la proposta di ribaltare l’assetto proprietario e salire al 60 e poi al 66 per cento con Invitalia o, nuovamente, il commissariamento (cioè l’amministrazione straordinaria).
La siderurgia italiana non è solo a Taranto. Ma Taranto alimentava una filiera in tutto il paese. Nel nord Italia la siderurgia è ancora forte. Molti in questi giorni dicono che tanto l’acciaio non si farà più in Europa. Non sanno di cosa parlano. Del resto, in Italia ci sono solo due opzioni politiche: essere anti industriali o essere a-industriali. La seconda è la più diffusa e include purtroppo una parte di establishment economico importante e competente. Questo è invece un momento di sfida del e al capitalismo industriale. Ma servono politici che abbiano contezza di cosa vive il nostro paese e di come guidarlo dentro le transizioni. Si può e si deve essere esigenti con le aziende (italiane e straniere) ma lo si è in modo efficace se si è credibili e affidabili.
E ora che si fa?
Ci sono due strade, il ricorso per l’ennesima volta all’amministrazione straordinaria, a cui l’azienda, a mio avviso, punta dalla fine del 2019, o la crescita di quote pubbliche che vanno verso la nazionalizzazione. L’unica condizione è che si arrivi al controllo pubblico con in tasca il nome dell’investitore industriale che prenderà in tempi brevissimi il posto di ArcelorMittal. Ci sono investitori italiani? Questo è il momento! Altrimenti cercare altrove.
C’è solo una constatazione da fare: chi ha proposto in questi anni la chiusura dell’Ilva ha sempre sostenuto che sarebbe arrivato un “ben altro” che a Taranto ancora non è ancora arrivato. Chiudere l’Ilva conviene a troppi, in Italia e all’estero. Taranto ha un territorio e una popolazione che meritano una prospettiva diversa da questo sterile declino.
Ho un grande rammarico: Taranto poteva essere la cartina di tornasole di un’Italia che sa cambiare. Capace di coniugare ambiente, occupazione e ben vivere. La politica sa che è troppo faticoso, i media altrettanto. Meglio esaltare le contraddizioni che gestirle mettendo al centro la prospettiva delle persone. Ilva è lo specchio di un Paese in guerra con sé stesso che crede che le fabbriche non servano o non esistano più. Già di per sé sarebbe un buon motivo per non gettare la spugna.
Marco Bentivogli, esperto di politiche di innovazione dell’industria e del lavoro, è stato segretario generale della Fim Cisl dal 2014 al 2020.