Il colloquio
Riforma della governance e ddl Capitali. Parla Assonime
“Le nuove norme possono aiutare a riportare in Italia le sedi delle società spostate all’estero”, dice Patrizia Greco, presidente dell'associazione per le società per azioni italiane
Il 13 settembre 1970 Milton Friedman pubblica sul New York Times Magazine quello che diventerà il manifesto della rivoluzione liberista: “La responsabilità sociale dell’impresa è aumentare i suoi profitti”, è il succo della sua dottrina. Poi nel 2011 arrivano Michael Porter e Mark Kramer: per loro, invece, l’impresa deve creare “valore condiviso”. Sono due guru che credono nel mercato, tuttavia interpretano una nuova fase nella quale “il capitalismo è sotto assedio”, scrivono sulla Harvard Business Review, quindi occorre coniugare progresso economico e sociale. Nella nostra epoca in cui l’Esg (Environment, social, governance) è ormai l’acronimo più importante insieme a Lgbt, produrre, vendere e guadagnare è un’attività che va svolta rispettando a tutto campo il criterio della sostenibilità. La trasformazione del modello economico richiama una visione di più lungo periodo e ci si chiede quali siano gli assetti proprietari, l’allocazione del potere, le regole del gioco più coerenti. È cominciata dunque una lunga e complicata ricerca di un nuovo standard normativo che coinvolge anche l’Italia. Fa parte di questo processo anche il disegno di legge Capitali in discussione alla Camera.
L’Ocse ha elaborato una serie di principi approvati dal G20 lo scorso anno. Per la prima volta vengono presentati in Italia domani nella conferenza che si tiene a Milano a palazzo Mezzanotte, nel cuore di piazza degli Affari, organizzata dall’Assonime (l’associazione delle società per azioni italiane) con l’Ocse e Borsa italiana. Titolo: “I nuovi principi di governance per lo sviluppo del mercato dei capitali e la crescita sostenibile”. E proprio su questo nesso tra gestione delle imprese, accesso al mercato dei capitali e sviluppo, insiste in modo particolare Patrizia Grieco, presidente dell’Assonime, nel colloquio con il Foglio. Il profitto resta il piedistallo su cui poggia ogni impresa economica, tuttavia “non basta più remunerare il capitale investito, bisogna remunerare anche altri capitali: quello umano, quello ambientale, la comunità nella quale un’impresa opera, la cultura, i valori, i diritti umani” spiega. E ci tiene a ribadire che “quelle dell’Ocse non sono norme imposte dall’esterno”, come temeva Friedman, al contrario possono dare risultati diventando parte integrante della vita aziendale.
“La trasparenza della governance davanti a tutti gli investitori è un valore di per sé”, sottolinea la presidente. Ciò riguarda gli obiettivi dell’impresa come la politica di remunerazione, e richiede il coinvolgimento non solo degli azionisti, ma di tutti i soggetti, a cominciare dai lavoratori, come si suol dire gli stakeholders oltre agli shareholders. Tuttavia non c’è nessuna velleitaria volontà di sostituire “la mano invisibile” con i tentacoli del Leviatano. Al contrario. Chi più e meglio realizza il triangolo virtuoso (ambiente-responsabilità-sostenibilità) avrà un accesso maggiore – e migliore – al mercato dei capitali. La transizione ambientale richiede un’ingente quantità di investimenti: secondo l’Agenzia internazionale dell’energia ci vorranno dai 3 ai 5 mila miliardi di dollari in dieci anni e non possono venire tutti dai bilanci degli stati già molto indebitati. L’Unione europea, dove non c’è un mercato unico dei capitali, è particolarmente esposta, e ancor più l’Italia. L’allocazione dei fondi esteri sul mercato dei capitali italiano è al 3 per cento rispetto all’indice europeo, quando il prodotto lordo del nostro paese sul pil europeo pesa per il 10 per cento; in Francia i rapporti sono ribaltati: 17 per cento il peso sugli indici, 12 per cento il pil. In cinque anni è uscito dal Belpaese un valore pari a 50 miliardi di euro diretti per lo più verso l’Olanda. Non per privilegi fiscali che non ci sono, ma grazie a regole più semplici che favoriscono il controllo proprietario dell’impresa consentendole nello stesso tempo di crescere. E per un ambiente nel suo insieme meglio disposto verso le grandi imprese quotate.
Il ddl Capitali che dovrebbe essere approvato il 3 febbraio, e che ha fatto storcere il naso al Financial Times, potenzia il voto maggiorato fino a dieci volte: ciò rende un’impresa meno scalabile, proprio come in Olanda e può invertire positivamente la rotta per le società che intendono spostare la loro sede. “C’è già chi ci sta ripensando. Non faccio nomi, ma ne conosco diverse”, annuncia la presidente. L’Assonime ha un giudizio nell’insieme positivo sul provvedimento, anche perché viene data la delega al governo per una revisione complessiva del sistema. L’obiezione immediata è che si corre il rischio di congelare gli assetti proprietari, un arrocco forse efficace per le imprese familiari, ma ingessa il mercato e allontana gli investitori. “La contendibilità per me è fondamentale – dice Patrizia Grieco – però la paura di perdere il controllo spesso inibisce la voglia e la capacità di espandersi. Troppo spesso i due fattori, crescita e controllo, sono in contrasto tra loro, si tratta di consentire un nuovo punto d’equilibrio e favorire la crescita delle nostre imprese”. Del resto la maggior delle imprese familiari oggi non è già contendibile. E poi, quante opa ostili in Borsa ci sono state nell’ultimo quarto di secolo? Una sola, quella su Telecom Italia lanciata da Roberto Colaninno.
La ricerca dell’equilibrio riguarda anche il rapporto tra azionisti e manager. Il disegno di legge consente al consiglio uscente di proporre all’assemblea il nuovo cda, con regole diverse rispetto alla presentazione delle altre liste. “Nemmeno questa, però, è un’imposizione – precisa la presidente Grieco – dovrà essere lo statuto della società, votato in assemblea, a introdurre la possibilità di presentare la lista del cda”. Chi come noi intravede una diffusa ostilità in Italia verso la società ad azionariato diffuso, viene invitato a un bagno di concretezza: il cosiddetto modello anglosassone ha eccezioni clamorose, con veri e propri colossi rimasti privati per scelta: negli Stati Uniti (da Cargill a Koch) e in Gran Bretagna (da Wiltington a Dyson). Tra i due estremi, la “terza via” è l’impresa familiare quotata, perché la borsa è di per sé un’apertura al mercato e alle sue regole. La famiglia Ford detiene il 40 per cento dei diritti di voto, ma la regina dell’automobile non viene gestita nel salotto di casa.
L’Italia non è rimasta indietro, anzi si può dire che i nuovi princìpi vengono già quasi tutti applicati, ma si può fare di più e l’Assonime ha condotto un’indagine punto su punto sulla buona aderenza del nostro sistema alle raccomandazioni dell’Ocse. Restano alcune lacune: la prima riguarda il codice etico, perché l’Ocse chiede che venga indicato anche un soggetto responsabile. Tuttavia in Italia esiste la legge 231 che pone a carico dell’impresa una responsabilità penale. Inoltre il collegio sindacale, nominato dagli azionisti e non dal management, esercita il ruolo di controllo e vigilanza ad ampio raggio come richiesto. Azionisti e investitori hanno il diritto di essere pienamente informati da parte di chi gestisce l’azienda, un tema che ha suscitato vere e proprie controversie. Anche qui si sono fatti importanti passi avanti grazie al codice di autodisciplina per organizzare al meglio il dialogo tra investitori e consiglio. Vanno meglio organizzati, invece, i piani di successione in molte aziende. Inoltre l’attività di lobbying dovrebbe essere coerente con gli impegni che l’impresa prende sulla sostenibilità. Si apre una contraddizione e non solo tra proclami supergreen e fatti concreti; pensiamo all’industria militare: come si combina con il nuovo paradigma fabbricare e vendere armi? Norges, il fondo sovrano norvegese, numero uno al mondo, non finanzia più una serie di settori, per esempio la ricerca e produzione di idrocarburi e ha pagato un prezzo (circa l’un per cento annuo) trovandolo accettabile. Larry Fink, il gran capo di BlackRock che già tre anni fa aveva annunciato la sua grande svolta Esg, ha in parte smussato una linea rivelatasi troppo intransigente. “Ci vuole un approccio pragmatico”, commenta Patrizia Grieco, a parte quando sono in gioco i diritti umani. Si pensi all’impiego di bambini o a condizioni di lavoro inumane.
Ma non è proprio quel che avviene in molti paesi del G20? Là dove vige il “capitalismo politico”, in Cina o in Russia, i principi dell’Ocse verranno davvero seguiti o non saranno anch’essi considerati frutto della “egemonia culturale dell’Occidente”? La risposta è che c’è sempre la sanzione del mercato. Nessuno può farne a meno, tutti hanno bisogno di ingenti flussi monetari che possono venire a mancare se non si rispettano le norme sull’ambiente, i diritti, la governance trasparente. Il principio della responsabilità sociale non vale solo per le grandi imprese: nessuna attività industriale, per quanto piccola, è una monade senza porte né finestre. Tutti oggi lavorano all’interno di vaste e complesse filiere. Se l’ambiente è un rischio da monitorare nell’azienda leader, viene coinvolta per forza di cose tutta la rete di fornitori. Anche questo fa parte del nuovo paradigma al quale si cerca di dare un quadro normativo senza mettere in gabbia l’impresa.