l'analisi
Il canale di Suez è l'ago della bilancia dei nuovi equilibri internazionali
La nuova crisi alimentata dagli attacchi houthi è una storia che si ripete. E oggi può acuire il conflitto tra l’Occidente e la triade del dispotismo orientale: Russia, Iran e Cina
Collegare il mar Rosso al Mediterraneo era il grande progetto dei faraoni già quattromila anni fa. Scavarono tra le sabbie un canale che sfociava nel delta del Nilo e portava le imbarcazioni verso nord. I Tolomei lo allargarono per arrivare più facilmente ad Alessandria. Traiano lo difese e da allora quella via dell’acqua fu conosciuta con il suo nome. Finché gli arabi, vincitori sui bizantini, non lo chiusero nel 676 della nostra era. La decisione del califfo di Damasco Mu’awiya ibn AbīSufyan della dinastia omayyade, non era dettata solo dalla volontà di potenza del nuovo imperialismo musulmano, ma anche dalla scelta di meglio controllare i traffici tra oriente e occidente: bloccata la via marittima non restavano che le carovane attraverso il deserto in mano da sempre alle tribù arabe e ai potenti persiani diventati anche loro seguaci del profeta. Venezia dovette raggiungere la Cina via terra. Toccò ai nuovi signori dei mari, francesi e inglesi, aprire la porta di Suez molti secoli dopo. Oggi altri seguaci di Allah vogliono tagliare quella vena giugulare che alimenta il cuore dell’Europa. E non sono soli: menti acute e braccia potenti muovono i fili dietro le quinte. I commerci non si fermeranno, saranno più cari e difficili; ma la nuova crisi di Suez va ben oltre i pur importanti orizzonti mercantili, infatti può cambiare in peggio gli equilibri internazionali acuendo il conflitto tra l’Occidente e la triade del dispotismo orientale (Russia, Iran e Cina).
Inaugurato nel 1869 e lungo 193 chilometri, il canale di Suez garantisce quasi il 7 per cento del traffico mercantile mondiale, per le sue acque passa il 12 per cento degli 11 miliardi di tonnellate di merci che transitano sui sette mari e il 40 per cento delle merci scambiate tra Europa e Asia. Da Singapore a Rotterdam attraverso Suez occorrono circa 25 giorni, circumnavigando l’Africa ce ne vogliono dieci di più. Il tempo ha un prezzo, i costi salgono e vengono scaricati sui consumatori, ma non tutti ci perdono: le compagnie di navigazione, a cominciare dai tre colossi il danese Maersk, lo svizzero-italiano MSC e il cinese Cosco che controllano il 45 per cento del commercio marittimo, si riempiono di profitti quando il noleggio delle navi balza alle stelle. I noli erano arrivati durante la pandemia a sfiorare i 15 mila dollari per un container standard tra l’Estremo Oriente e l’Europa del Nord, poi sono piombati tra 2-3 mila l’anno scorso, a gennaio sono saliti del 70 per cento. C’è poi da calcolare il peso delle assicurazioni diventate più care con l’aumentare dei rischi, i possibili danni alle navi e soprattutto l’eventuale perdita di vite umane.
I colpi più duri nell’immediato sono per l’Egitto. Il Cairo controlla il canale, un potere e un privilegio sottratto alla Gran Bretagna con un atto d’imperio (la nazionalizzazione del 1956), perduto nel 1967 con la guerra dei sei giorni, chiuso fino al 1975, poi tornato sotto il controllo egiziano. Il costo per il transito di ogni singola nave varia moltissimo, dai 100 mila ai 500 mila dollari, e si stimano entrate annuali per il governo del Cairo pari a circa cinque miliardi di dollari. I porti italiani e greci soffriranno di più, insieme a Marsiglia. In realtà soffrivano già. Per renderli davvero attraenti debbono essere ben collegati con il resto d’Europa, soprattutto con il nord. Genova non lo è, per la Germania e per la stessa Francia Le Havre e Amsterdam sono più comodi, mentre Rotterdam rappresenta da secoli il vertice dell’intero triangolo, per l’Europa è lo snodo cruciale come lo era Alessandria durante la globalizzazione romana. Le navi solcavano il Mar Arabico, verso l’India e attraccavano alle colonie greche fondate da Alessandro. Scambiavano argento con spezie, mentre dalla Cina arrivavano le sete e i capelli apprezzati dalle nobili egiziane e dalle matrone romane per farne parrucche nere, lisce, diritte. Il Periplus Maris Erythraei scritto nel primo secolo dell’era volgare, enumera una serie di città e di porti lungo le coste egiziane e arabe fin dove sorge l’odierna Aden per poi costeggiare l’attuale Oman e far rotta verso Barygaza (oggi Bharuch) sulla costa indiana. Il controllo di quel commercio marittimo era essenziale, nonostante fosse costoso e pericoloso come scriveva quel conservatore di Plinio il Vecchio. I romani, che non invasero mai l’Egitto, proteggevano comunque la rotta dei navigli. Finché il canale non venne potenziato, le merci venivano trasportate ad Alessandria a dorso di cammello e gli arabi erano i migliori carovanieri.
Tutto cominciò a cambiare già con i bizantini, finché l’islamizzazione della penisola araba e poi della Persia non chiuse un’era che si riaprì solo 1.200 anni dopo. Per la verità furono gli archeologi e gli scienziati arrivati al seguito di Napoleone nel 1799 a ritrovare l’antico canale e a concepire l’idea di farlo arrivare direttamente fino al Mediterraneo, ma sbagliarono i calcoli. Infatti, stimavano che ci fosse un dislivello di nove metri tra i due mari, così che sarebbe stato necessario costruire una serie di chiuse come poi avvenne a Panama. Non era così, le acque sono grosso modo allineate come scoprì mezzo secolo dopo il diplomatico francese Ferdinand de Lesseps che riuscì a ottenere da Muhammad Sa’id Pascià sovrano d’Egitto e Sudan, la concessione per scavare il canale là dove si trova oggi. Era il 1854, la sua Compagnie de Suez aveva la gestione per 99 anni, ma per trovare i capitali Lesseps vendette il 51 per cento a banche e società finanziarie francesi, mentre il governo egiziano mantenne un robusto 44 per cento. Ci vollero cinque anni prima di cominciare gli scavi che durarono un decennio. Un’epopea drammatica, tra enormi difficoltà di ogni genere, migliaia di morti tra gli operai, in gran parte egiziani, costretti a lavorare in condizioni terribili. Il colera fece strage, finché il 17 novembre 1869 i potenti d’Europa, dall’imperatrice Eugenia moglie di Napoleone III all’imperatore Francesco Giuseppe, battezzarono la grande opera. Un corteo di navi accompagnate dalla Marcia egizia composta per l’occasione da Johann Strauss figlio, sfilò nel canale che in realtà era già stato testato due anni prima.
Per celebrare l’evento Isma’il Pascià, governatore d’Egitto per conto del sultano ottomano Abdul Aziz, ingaggiò Giuseppe Verdi. Il Cigno di Busseto respinse sdegnato la sontuosa offerta: “Non scrivo musica su commissione”. Il chedivè si rivolse all’egittologo Auguste Mariette, il quale aveva già scritto un soggetto adatto che diventerà poi la base per la storia d’amore tra la “celeste Aida” principessa etiope e il suo guardiano Radamès. Ma niente da fare. Allora l’archeologo supplicò Camille du Locle, direttore dell’Opéra national de Paris, che aveva completato il libretto per il Don Carlo, di convincere il riluttante e bizzoso maestro italiano il quale accampava mille scuse e, tra l’altro, non aveva voglia di intraprendere un viaggio lungo e faticoso. Ma il furbo pascià fece trapelare di essere pronto a girare l’offerta a Richard Wagner o a Charles Gounod. Chissà se l’astuta mossa scosse l’amor proprio di Verdi, fatto sta che ne nacque un’opera sontuosa in stile francese, quindi con balletti grandi scenari basati su geroglifici egiziani. “Una splendida mise en scene”, disse il maestro il quale ottenne di fare le prove a Parigi e vide raddoppiato il compenso: 150 mila franchi una cifra altissima. L’artista riluttante darà vita a un capolavoro di prima grandezza nel quale si getta a capofitto ed esprime gran parte della sua poetica. Du Locle curò l’allestimento scenico, il librettista Antonio Ghislanzoni al quale “mancava la parola poetica”, si limitò a mettere in rima il soggetto, il resto è Verdi, con il suo genio drammaturgico, la capacità di “inventare il vero” e lo scavo psicologico sublimati in una musica possente. Il 24 dicembre 1871 il teatro del Cairo venne scosso da applausi scroscianti che interrompevano l’esecuzione nei momenti cruciali, tanto travolgente era l’entusiasmo. Le lunghe trombe ispirate a quelle antiche, egiziane e romane, stupirono il pubblico ed esaltarono l’immortale marcia trionfale. Fu un successo anche alla Scala, è ancor oggi continuamente in cartellone, con o senza balletti, secondo molti musicologi va considerata l’apogeo del melodramma.
Un grand opéra per celebrare il predominio di Parigi che però non durò molto. I debiti, sempre i debiti: per pagarli l’Egitto vendette la sua quota agli inglesi che erano stati contrari al canale visto come una minaccia al loro predominio sulla rotta oceanica. Ironia della storia, fu Londra a trarne il profitto maggiore. Nel 1882 scoppiò un conflitto armato con l’Egitto, tre anni dopo si tenne a Parigi una conferenza internazionale, ma solo nel 1888 la convenzione di Costantinopoli confermò che il canale doveva restare “libero e aperto, in tempo di guerra come in tempo di pace, a qualsiasi nave civile o militare, senza distinzione di bandiera”. La Compagnia di Suez sopravvisse, ma fino al 1956 venne gestita insieme da francesi e inglesi. Poi perse tutto e si trasformò in una finanziaria franco-belga chiamata Gaz de France-Suez. In Italia vende luce e gas ed è azionista della municipalizzata romana Acea. Nel 1988 incrociò le armi con Carlo De Benedetti per il controllo della Société Générale de Belgique e vinse. CDB ammise che quello fu il suo errore più grande, penoso e costoso. Quanto ci porta lontano il canale di Suez.
Un tentativo di violare la libertà di navigazione fu fatto durante la Grande Guerra dall’esercito ottomano schierato con i tedeschi, nel secondo conflitto mondiale furono gli italiani. Ma la convenzione di Costantinopoli crollò davvero solo nel 1956 quando Gamal Abd el-Nasser, rovesciato il re Faruq alla testa di un pugno di ufficiali, prese il potere al Cairo e, in nome del nuovo nazionalismo arabo, decise di prendersi Suez. Il Regno Unito che ne deteneva ancora il 44 per cento mandò tre portaerei, la Francia due, mentre Israele occupava il Sinai. Nasser fece affondare tutte le 40 navi intrappolate e a quel punto i marine e i paracadutisti britannici s’impadronirono del canale. Per la prima volta vennero impiegati elicotteri d’assalto, ma l’efficacia bellica di inglesi e israeliani sostenuti dai francesi s’infranse contro la volontà e gli interessi delle due superpotenze: l’Unione sovietica minacciò di intervenire a fianco dell’Egitto e gli Stati Uniti agirono sull’Onu per costringere i tre attaccanti alla ritirata. Nel 1957 fu dispiegata la prima missione dei caschi blu con la Forza di emergenza dell’Onu. Gli storici hanno scritto che finì così il colonialismo europeo: nel frattempo i francesi avevano lasciato l’Indocina e stavano per abbandonare anche l’Algeria; la Gran Bretagna aveva concesso l’indipendenza all’India già nel 1947. Regnava un nuovo ordine mondiale, un ordine bipolare, sostenuto dall’armamento nucleare. Anche se non fu sufficiente nel 1967 per impedire ai tre paesi arabi confinanti di attaccare Israele, che reagì prendendo di nuovo il Sinai. L’Egitto fu sconfitto in sei giorni (e così Giordania e Siria), intanto Il Cairo aveva chiuso il canale e 15 navi da carico rimasero bloccate per ben otto anni.
La minaccia adesso arriva dallo Yemen. Sono i ribelli Houthi aizzati e armati dall’Iran ad attaccare le navi, ma non tutte. Attenzione, qui non si tratta di pirateria, né di bloccare il canale, si tratta di una offensiva soltanto contro navigli occidentali. E’ un gioco sporco, una partita con le carte truccate. La guerra civile yemenita va avanti da dieci anni, da quando gli Houthi in prevalenza sciiti hanno rovesciato il governo ufficiale sostenuto dall’Arabia Saudita. Come sempre nel mondo islamico si mescolano religione e politica (i ribelli si fanno chiamare Partigiani di Allah) in una logica di potenza spirituale e materiale. Un conflitto in apparenza periferico è diventato un braccio di ferro tra Teheran e Riad, per trasformarsi in una crisi internazionale che s’incrocia con la guerra di Gaza. L’Iran non ha intenzione di intervenire direttamente (almeno per ora) contro Israele, così usa gli Houthi come spina nel fianco sud, mentre Hezbollah preme dal Libano sul fronte nord. Si frega le mani Vladimir Putin che calca le sabbie della Siria con i suoi stivali di lupo, mentre Xi Jinping ottiene un salvacondotto per le sue navi. I cargo cinesi usano dei segnali per avvertire della loro presenza all’imbocco dello stretto di Aden evitando così di cadere sotto i razzi lanciati da terra e gli attacchi dei droni. Ma Pechino, abile a giocare su molti fronti, rifiuta di far pressione su Teheran e usa la crisi di Suez per rilanciare la sua grande strategia che negli ultimi anni s’è bloccata soprattutto in Europa.
“La nuova via della seta è più importante che mai”, ha scritto su Foreign Policy Parag Khanna fondatore di Climate Alpha, piattaforma finanziaria basata a Singapore. E ancora: “L’Occidente sta imparando che deve mettere il suo denaro dove è la bocca. Alla Cina bisogna dar credito di aver elevato le infrastrutture nell’agenda globale dopo decenni di negligenza dei poteri occidentali”. Non è una voce isolata, è la voce di quei grandi interessi filo-cinesi che hanno proprio in Singapore il loro quartier generale. Dunque, se Suez è troppo rischioso, meglio prendere armi e bagagli e seguire le strade di Marco Polo, pagando un tributo alla Persia, alla Russia con in suoi clienti asiatici e soprattutto alla Cina. Il triangolo si chiude. L’alternativa è affrontare la furia dei tre oceani, l’Indiano, il Pacifico, l’Atlantico. E anche questo sarebbe un ritorno indietro almeno di un paio di secoli. Chi se lo può permettere? Gli Stati Uniti certamente sì, con la Gran Bretagna e l’Olanda, meno la Francia o la Spagna. E di nuovo come un tempo il Mediterraneo rimarrebbe isolato, dipendente non più centrale. Il trentennio dell’ultima globalizzazione lo aveva riportato in auge, ora il nuovo gioco delle potenze rischia di emarginarlo. No global e neo local che predicano e praticano chiusure protezionistiche e illusioni nazional-pacifiste, finiscono per recitar la parte dei complici più o meno inconsapevoli.