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La storia

Quei maledetti quindici chilometri: perché non siamo un paese per infrastrutture

Giorgio Santilli

L’odissea lunga trent'anni della strada statale 675 e del tratto Monte Romano est-Tarquinia-Civitavecchia. Uno scandalo italiano fra cavilli burocratici e tutele ambientali e archeologiche. Un sogno diventato incubo

Si chiama itinerario Civitavecchia-Orte-Ravenna-Venezia ed è forse il caso più eclatante, fra tanti, di come l’Italia non sia un paese per infrastrutture. Proposto in programmazione già dagli anni 60, entrato nella legge obiettivo e tramutato in un sogno (o forse un delirio) di autostrada in project financing e a pedaggio, viene derubricato a piano di manutenzione straordinario, che è poi l’unica cosa che tuttora funziona bene. Intanto sul versante tirrenico 15 chilometri di bretella impediscono il completamento dell’arteria dei due mari, fino all’Adriatico, in un rimpallo di progetti presentati, ritirati, contestati, bocciati dalla valutazione di impatto ambientale, mandati avanti a forza dai superpoteri del presidente del Consiglio (era Gentiloni), bloccati anche quelli dalla Corte di giustizia Ue e poi dal Tar del Lazio, poi nuovo cambio di progetto e finalmente un commissario straordinario che accelera, ma è solo il primo stralcio di tre chilometri mentre gli altri dodici andranno in appalto, se andrà tutto bene, nel corso del 2025 per finire, forse, tra il 2033 e il 2035.
 

Ma la storia va raccontata nei dettagli. L’Europa lo inserisce nel corridoio stradale E45-E55 che collega la Sicilia ai fiordi norvegesi di Troms, attraversando sette paesi per oltre 5 mila chilometri. È un percorso misto, composto principalmente dalla “trasversale dei due mari”, la SS 675 Civitavecchia-Orte-Ancona, e dalla SS 3-bis Tiberina che per le vie interne risale dalle campagne umbre ai mosaici bizantini di Ravenna: l’Anas parla di “significativi volumi di traffico, in costante aumento”, ma si tratta soprattutto di traffico locale, come quelli intorno a Perugia, dove gli indici raggiungono il livello massimo, oppure nella Tuscia, per garantire lo sbocco al mare. 
 

Traffici locali vitali per le economie territoriali, ma a nessuno verrebbe in mente oggi di percorrere la E45-E55 come “alternativa alla Autostrada del Sole”. Eppure, per un certo periodo – erano i tempi in cui era ancora bloccata la realizzazione della variante di valico fra Sasso Marconi e Barberino del Mugello sulla A1 – la strada ebbe un momento di gloria proprio con questa chiave sostitutiva e si arrivò a ipotizzare un’autostrada da realizzare in project financing con il nome di Nuova Romea.
 

Inserito nella legge obiettivo come infrastruttura strategica con un preventivo di spesa progettuale di 135 milioni di euro nel 2001, il collegamento stradale viene rilanciato dal governo Berlusconi II, nel 2003-2005, come autostrada a pedaggio su progetto presentato da un promotore privato (Banca Carige, Technip Italia, Mec srl, Scetaroute sa, Egis Project Sa, Efibanca, Gefip Holding Sa e Transroute International Sa) e approvato dall’Anas. Il costo schizza a 10,8 miliardi. Un progetto faraonico che si sarebbe dovuto reggere su volumi di traffico poco realistici e che viene smontato – insieme ad altri progetti berlusconiani della legge obiettivo – dalla stagione della project review del governo Renzi, protagonisti Graziano Delrio ministro delle Infrastrutture e il numero uno della programmazione trasportistica in Italia, Ennio Cascetta, alla guida dell’unità di missione del Mit. Un lungo e prezioso lavoro di riprogrammazione che riporta l’Italia con i piedi per terra, supera la legge obiettivo che aveva trainato l’Italia in una nuova fase di sviluppo infrastrutturale (le cartine di Silvio Berlusconi da Bruno Vespa a “Porta a Porta”) ma era sempre stata frustrata nelle sue ambizioni numeriche mirabolanti da una finanza pubblica dominata dall’arcigno Patto di stabilità.
 

Il risultato di questa alternanza di programmi esuberanti e di professioni di sobrietà è che sulla E45 il progetto autostradale viene sostituito da un piano di manutenzione straordinaria da 1.530 milioni di euro che vive bene tuttora e ha per obiettivi “il miglioramento tecnico-funzionale, il risanamento profondo del corpo stradale, i rifacimenti superficiali dei tappeti piattaforma, gli interventi di miglioramento sismico delle opere d’arte, la sostituzione di segnaletica verticale e marginale, le barriere di sicurezza” e anche la sperimentazione di nuove pavimentazioni: un lavoro all’insegna dell’attuale linea Anas di attenzione alla manutenzione della rete stradale che viene svolto con diligenza (10 interventi ultimati per 393 milioni, 99 interventi per 461 milioni cantierati o di imminente avvio, altri 678 milioni in progettazione) ma che certo non fa sognare.
 

Il problema italiano è però, come noto, che i sogni e i deliri infrastrutturali spesso si trasformano in incubi, quando ci si sveglia nel bel mezzo di processi autorizzativi infiniti che esasperano i conflitti locali e tengono ferme le opere per decenni. E uno degli incubi più significativi che il paese abbia vissuto, uno scandalo a livello europeo che dovremmo analizzare sul lettino di Freud come paese, è la tratta di 15 chilometri della SS675 a completamento, lato tirrenico, dell’intero asse Orte-Civitavecchia. Una vicenda che le supera davvero tutte.
 

L’odissea della strada Monte Romano est-Tarquinia-Civitavecchia parte dalla presentazione del primo progetto Anas nel 2002-2003 e subito mostra la faccia poliedrica di un destino incompiuto con tracciati che vanno e che vengono, passano ma non vanno avanti, bocciati e poi ripescati, se ne contano quattro sulla carta, con mille varianti ciascuno, ma ognuno ha fan e oppositori, in una partita infinita, ambientalisti contro archeologia, odiatori di professione contro sviluppisti. Ma la telenovela più recente – la scala temporale passa dai 60 anni ai 20 e ora ai 5-6 – ha inizio il 21 gennaio 2017 quando la commissione di valutazione di impatto ambientale boccia il nuovo progetto presentato da Anas l’11 marzo 2014. Tre anni di esame per una bocciatura.
 

Quello attraversato dalla nuova strada è un territorio delicatissimo stretto fra il sito archeologico di Tarquinia/Tuscania protetto dall’Unesco e un’area di alto valore naturalistico protetta dall’Unione europea (Natura 2000). Le due tutele sono, non di rado, in contrapposizione, scavi archeologici contro arbusti, e questo spiazza l’Anas, come tutti i “soggetti promotori” che nei dibattiti più o meno pubblici sono tirati per la giacchetta da una parte all’altra, spesso perdono la bussola, più spesso difendono a spada tratta i loro progetti, qualche volta anche indifendibili. Fatto sta che, dopo aver avuto nel 2008 un primo parere ambientale favorevole (con molte condizioni) al “tracciato viola” con passaggio a nord (alternativa di Tarquinia), considerato a elevato rischio archeologico ma minore rischio ambientale, l’Anas cambia progetto presentando un tracciato per la valle del Mignone (“progetto verde”) più sostenibile sul piano archeologico ma più impattante sul piano ambientale, suscitando da subito le perplessità della commissione Via (che chiede la presentazione di ulteriori varianti progettuali) e le opposizioni feroci degli ambientalisti, più favorevoli semmai al “progetto viola”, che però è più complesso e costoso per via di alcuni tratti in galleria. Sui social il “progetto verde” impazza come il male assoluto.
 

La bocciatura ambientale del progetto non scoraggia il governo Gentiloni (ministro delle Infrastrutture ancora Delrio) che aveva deciso di tenere duro: va avanti, attivando la procedura straordinaria, rarissima a quei tempi (poi sdoganata da Draghi in quantità industriali), che consente al Consiglio dei ministri di sostituirsi alla commissione Via e a qualunque altra autorità chiamata a esprime un parere e di approvare comunque il progetto. Segue l’approvazione del Cipe il 28 febbraio 2018.
 

A quel punto la reazione degli ambientalisti propone il ricorso al Tar del Lazio per annullare sia la decisione del Consiglio dei ministri sia la delibera Cipe. Il Tar del Lazio preferisce rimettere la questione alla Corte di giustizia Ue che, pur riconoscendo la priorità strategica dell’opera, sostiene si debba cercare con più impegno una soluzione progettuale capace di conciliare le diverse tutele. A quel punto – siamo al 5 ottobre del 2021 – il Tar del Lazio, cui la questione era tornata, decide di annullare le decisioni del governo Gentiloni riportando l’orologio a zero, esattamente dopo venti anni.
 

Qui, però, c’è stato un cambiamento di fase. A coordinare tutte le procedure relative all’opera era stata nominata il 16 aprile 2021 una dirigente dell’Anas, Ilaria Maria Coppa. La nomina porta la firma di Mario Draghi e di Enrico Giovannini, insediati da tre mesi, ma era il completamento della procedura avviata dal governo Conte, particolarmente favorevole all’uso dei commissari straordinari: era stato lui con il decreto Sblocca cantieri del governo gialloverde a rilanciare la stagione della chiamata al servizio dei Supereroi con superpoteri (spesso spuntati).
 

Per Coppa, la sentenza del Tar impone di ricominciare tutto da capo. Si arma di pazienza, il superpotere per eccellenza per chi fa quel mestiere. E la prima scelta della commissaria punta subito a velocizzare il velocizzabile, suddividendo l’opera in due parti: un primo stralcio, più facile da gestire, per la tratta di 5 chilometri fra Monte Romano est e Tarquinia. La seconda scelta, in coordinamento con l’Anas, è di tornare al “progetto viola” modificato evitando l’impatto sia sul sito archeologico sia sull’area ambientale Natura 2000.
 

Il cambiamento di rotta, che è anche una grande opera di ascolto e di mediazione infinita, produce risultati positivi: il nuovo progetto ottiene il parere favorevole della commissione Via, passata intanto sotto il comando di un “laico” delle grandi opere non affetto da preclusioni come Massimiliano Atelli (che non a caso ha moltiplicato per dieci i pareri approvati), ed è aggiudicato a luglio un appalto integrato di progettazione esecutiva ed esecuzione dei lavori al consorzio Etruria. Anche un ricorso fatto dalle imprese concorrenti è bocciato e non produce effetti. Le cose sembrano essersi messe in moto, ma senza fretta. La progettazione esecutiva e la sua verifica richiederanno ancora sei mesi. Coppa prevede l’apertura del cantiere principale prima dell’estate, ma le pensa proprio tutte e ora escogita una “fasizzazione” per mandare avanti in anteprima tutte le lavorazioni accessorie. È il metodo dello spezzatino all’ennesima potenza.
 

L’ultimo ostacolo è nel recepimento all’interno del progetto esecutivo delle 51 prescrizioni fra cui ci sono una adeguata cartografia boschiva, le opere di mitigazione acustica, l’installazione di 800 piantine “da eseguire con la tecnica a random”, la verifica che tutte le piante abbiano attecchito e sia fatta manutenzione per due anni, la “tutela degli eventuali individui arborei definiti albero monumentale”, il reimpianto di tutte le piante di olivo abbattute (220 solo per far posto al campo base), l’installazione di un autovelox, la correzione dei refusi sui segnali stradali dello svincolo di Tarquinia. Ce n’è per tutti ma ormai Coppa è in vantaggio e perdere questa partita dell’apertura del cantiere sembra quasi impossibile
 

Fischio d’inizio, dopo 22 anni. Ma poi quanto dura la partita del cantiere? Solo 1.805 giorni, da progetto. Cinque anni. Se non si troveranno ville etrusche sotto terra o specie rare di arbusti, per il 2031 potremo vedere completati questi tre chilometri. Saremo arrivati a trenta anni.
 

Ma non è finita qui. C’è la seconda partita o meglio il secondo tempo, con pesante rischio di tempi supplementari: lo stralcio Tarquinia-Civitavecchia, dodici chilometri che riproporranno gli scontri fra archeologia e natura. Il parere del ministero della Cultura di sblocco del primo stralcio la dice lunga: “Prendete questo sì, ma il secondo stralcio è tutta un’altra partita”, la sostanza è questa. Coppa può essere solo ottimista. “Confido nel buon senso delle istituzioni – dice – perché non siamo di fronte a un progetto mai visto, alla prima presentazione”. Riuscirà a evitare i due fuochi incrociati?
 

Ora siamo ancora al Docfap, il Documento di fattibilità delle alternative progettuali che mette a confronto i vari tracciati possibili. “L’analisi dei tracciati l’abbiamo già fatta”, dice Coppa che non ci pensa proprio a svelare quale sia il suo preferito, rischiando di farselo impallinare. Spiega che dovrà seguire il Pfte, Progetto di fattibilità tecnico-economica, che serve per incassare pareri e autorizzazioni e mettere a gara la realizzazione del progetto definitivo ed esecutivo e dei lavori. Tutto insieme, appassionatamente, e chi pensa che questo accorci i tempi, sbaglia. “Contiamo di andare in appalto nel 2025”, tira dritto Coppa. Ma è un appalto che prevede almeno un anno per completare la progettazione. Cantiere, se va bene, nel 2026. Ma qui il sogno di Coppa finisce. Torniamo agli incubi.

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