L'analisi
Il principio dominante che le politiche pubbliche garantiscono crescita è infondato. Lo dice Bankitalia
Uno studio della Banca d'Italia rivela che vincere gare pubbliche aumenta la sopravvivenza delle imprese, ma non stimola la crescita economica o la produttività, evidenziando effetti negativi sull'intera economia italiana
Dalla pandemia, lo stato ha enormemente esteso la sua mano nelle attività economiche, e il trend continua ancor più energicamente oltre l’emergenza pandemica. In Europa attraverso la scelta di obiettivi accelerati di sostenibilità green affidati innanzitutto a imprese e tecnologie che lo stato stesso sceglie, in USA e Cina attraverso giganteschi piani di incentivo pubblico alle tecnologie di frontiera e all’indipendenza da mercati esteri. È una tendenza al cui sostegno si è accumulata una vastissima letteratura economica, volta a sostenere che lo Stato non risponde così solo anticiclicamente alle grandi crisi, ma torna a essere lui il soggetto primario delle politiche industriali. In Italia l’ebbrezza neostatalista è ancor più accentuata. Malgrado la comprovata inefficienza pubblica nella gestione diretta di investimenti pubblici a ogni ordinario sessennio di fondi europei, il governo Conte 2 incentrò l’intero Pnrr su gare disperse tra migliaia di soggetti pubblici attuatori, ignorando tutte le proposte di economisti industriali che sostenevano invece la gestione del più dei fondi attraverso partenariato pubblico-privato, elevando cioè l’ammontare degli investimenti con quelli addizionali privati, ed estendendo ai privati stessi il rispetto dei tempi realizzativi e parte del rischio di credito, con maggior effetto di produttività aggregata.
Per evitare una sterile diatriba ideologica servono allora accurate ricerche microeconomiche che studino gli effetti concreti della mano pubblica, valutando dati alla mano quanto siano positivi e quanto millantati. Ecco perché vanno ringraziati gli economisti che si dedicano a questo approccio. Un validissimo esempio viene da un paper appena pubblicato da Banca d’Italia, gli autori sono Matilde Cappelletti e Leonardo Giuffrida economisti del Centro Europeo per la Ricerca economica presso l’Università di Mannheim, e Gabriele Rovigatti economista presso la Direzione statistiche economiche di Bankitalia. La loro domanda è: qual è l’effetto stimabile dell’aggiudicazione di gare pubbliche sulla sopravvivenza delle imprese italiane, crescita, occupati e produttività? Anticipiamo subito che la risposta andrebbe considerata con grande attenzione da chiunque ripeta fanfaluche indimostrate sulle meraviglie che lo stato assicura. La ricerca è partita da un presupposto obbligato: costruire ex novo un data set complessivo in grado di incrociare con la massima precisione i dati delle gare pubbliche, con quelli contabili e patrimoniali, di occupati e produttività dei soggetti che partecipano alle gare, vincitori e non vincitori visto che la comparazione dev’essere tra loro nel complesso. Per le gare, il riferimento è al registro nazionale curato dall’Anac per tutte quelle di valore superiore ai 40mila euro e dei relativi partecipanti, per un ammontare che raggiunge la media annuale di 156 miliardi di euro pari al 9% del Pil e al 90% dell’intera spesa annuale nel procurement pubblico.
Le sole costruzioni, su cui si focalizza la ricerca, valgono il 19% di questa cifra. Si affiancano poi i data base contabili delle imprese raccolti dal Cerved e quelli di nascita e cancellazione raccolti da Infocamere, non ché quelli rilevati mensilmente dalla Banca d’Italia sul credito e sull’evoluzione temporale dei diversi tipi di esposizione delle imprese. La parte analitica del paper è interessantissima, esamina anche le caratteristiche delle tipologie di gara e dei diversi criteri aggiudicazione. Ma se per sintesi andiamo direttamente ai risultati della ricerca, ecco la sorpresa. La prima risposta è che sì, vincere gare pubbliche accresce il tasso di sopravvivenza dei vincitori. La risposta sulla crescita è no: nella maggior parte dei casi la domanda pubblica ha un effetto sostitutivo della domanda privata, non è addizionale e permanente in termini scalari, se non nella manodopera addizionale che può essere a tempo, giusto per adempiere al contratto pubblico. Analogamente non è rilevato un effetto scalare sulla produttività, anzi chi non vince le gare sembra “costretto” ad accrescerla più di quanto avvenga per i vincitori. Le imprese vittoriose per “collegamento politico” con l’autorità pubblica che bandisce la gara possono essere quelle a produttività, solidità finanziaria e redditività inferiore alle altre, e la gara pubblica diventa una “gara alla salvezza” di chi sta peggio.
Che ha il suo vero fondamento sul credito: sì, chi vince la gara ha accesso preferenziale al credito del sistema bancario, fiducioso sul flusso pubblico di cassa garantito e dunque meno necessitato al chiedere garanzie di collaterali come invece accade per le imprese sprovviste di favore della mano pubblica. Con una conseguenza di uno spiazzamento dei migliori e di un salvagente ai peggiori, che bene non fa alla stagnante produttività multifattoriale italiana. Non vi pare che conclusioni analitiche di questo spessore dovrebbero essere ben presenti nell’urlatorio del dibattito pubblico e politico italiano? A chi scrive pare proprio di sì. Ma sa anche che s’illude.