Risiko bancario
L'uscita di Crt da Bpm è un segnale anche alla politica (vedi Mps)
"Se non ora, quando?", avrà pensato Fabrizio Palenzona, presidente della Fondazione Crt, quando ha deciso di vendere all'improvviso la sua quota in Banco Bpm. Un gesto che solleva interrogativi sul settore bancario italiano
Se non ora quando? È quello che potrebbe aver pensato Fabrizio Palenzona, presidente e deus ex machina della Fondazione Crt, quando, in modo del tutto inatteso, ha deciso di vendere, il 13 febbraio, la partecipazione nel capitale di Banco Bpm, rimescolando le carte sullo scacchiere bancario italiano. È innegabile che con questa mossa la terza fondazione del paese, crocevia di investimenti in grandi gruppi (Generali, Unicredit, Mundys-Benetton, Cdp e come dimenticare il sostegno offerto a Caltagirone e Del Vecchio nella battaglia per il controllo del Leone) abbia portato a casa una considerevole plusvalenza: 80 milioni di euro. Il pacchetto azionario, pari all’1,8 per cento, detenuto nel capitale della banca milanese era in carico a 57,6 milioni ed è stato venduto per una cifra superiore a 130 milioni in un momento di mercato favorevole per i titoli bancari. È anche vero, però, che vendendo due mesi prima dell’assemblea dei soci di Banco Bpm, Fondazione Crt ha rinunciato al dividendo che avrebbe potuto ricevere in virtù della sua partecipazione, che, alle attuali quotazioni, sarebbe stato di una quindicina di milioni di euro. Una cifra non trascurabile. Perché tanta fretta? Volendo seguire una logica prettamente finanziaria, a cui gli ambienti della Fondazione torinese non sono insensibili, era questa la finestra di mercato da cogliere, visto che con il prevedibile taglio dei tassi d’interesse da parte della Bce i valori di borsa delle banche potrebbero cominciare a calare.
Ma una spiegazione che si limita alla gestione ottimale del portafoglio partecipazioni non convince del tutto chi pensa, invece, che proprio il timing dell’operazione suggerisca la volontà della Fondazione torinese di investire in tempi brevi in altre istituzioni finanziarie. Ma dove? Tutti gli scenari passano per Siena visto che entro il 2024 il Mef dovrà uscire dal capitale della banca di cui detiene ancora una partecipazione pari al 39 per cento. A palazzo Chigi le posizioni sul futuro del Monte sono differenziate, ma se il direttore di una divisione strategica come quella delle partecipate, Marcello Sala, professa apertamente in riunioni riservate la necessità di trovare al più presto un partner bancario per una fusione e non nasconde l’idea che questo soggetto possa essere Banco Bpm, c’è da domandarsi se il pressing della politica possa avere avuto un ruolo nella decisione di Crt. L’ad dell’istituto milanese, Giuseppe Castagna, si è sempre detto disinteressato a un matrimonio con Siena e, forte dei brillanti risultati raggiunti sotto la sua gestione, ha fatto della strategia “stand alone” un mantra. Ma nella base dei grandi soci di piazza Meda serpeggia da tempo il timore che il tema di una aggregazione con Siena possa prima o poi riproporsi. L’idea prevalente è che nonostante il forte rilancio avvenuto sotto la guida di Luigi Lovaglio, il boccone Monte sarebbe indigesto per una realtà di medie dimensioni come Bpm. Che Palenzona possa aver pensato di uscire di scena prima che il governo torni a bomba? Non è un mistero che i vertici della Fondazione torinese avrebbero visto di buon occhio un’aggregazione di Bpm con Unicredit, che dopo vari abboccamenti non è mai andata avanti. E poi Palenzona è diventato presidente ponendosi come obiettivo di costruire una rete con le fondazioni del nord-ovest che raccolgono metà del patrimonio delle fondazioni di origine bancaria italiana.
Coltivare il legame con il territorio, insomma, è sempre stata una sua priorità e più giù di una certa latitudine l’istituzione piemontese non ha mai guardato. D’altro canto, non si può escludere del tutto che Crt, vista la sua dimensione e capacità finanziaria, possa farsi ispirare da qualche operazione strategica di rilevanza nazionale. Intanto, la sua uscita a sorpresa da Banco Bpm ha come effetto di ridisegnare gli equilibri azionari poiché si riduce il perimetro del “patto di consultazione” tra Enti, Fondazioni e Casse che dall’8,3 per cento passa al 6,7 per cento. Diventa più piccolo, ma resta pur sempre un nocciolo duro.