Una parte dello stabilimento Edgar Thomson di US Steel a Braddock, Pennsylvania (AP Photo/Gene J. Puskar) 

Dall'Ilva in Italia a Us Steel negli Stati Uniti. I danni fatti dai populismi all'industria dell'acciaio

Oscar Giannino

È emblematica la piega che ha preso il caso del gruppo siderurgico americano, che poco prima di Natale ha accolto l’offerta di acquisizione venuta da Nippon Steel, sollevando così scomuniche politiche e reazioni internazionali

Il populismo produce pessime decisioni politiche. Antepone e contrappone slogan pregiudiziali e identitari a un serio esame di ogni questione da affrontare. E spesso ricade come un boomerang sulla testa di chi adotta decisioni facili da urlare, ma pessime nei risultati. Prendiamo ad esempio due vicende che riguardano il settore dell’acciaio. La ex Ilva in Italia e il gruppo Us Steel negli Stati Uniti

   
Nel caso italiano, dal 2012 a oggi il commissariamento giudiziale dell’azienda e dei suoi impianti è stato una via crucis. E ora ci avviamo verso l’ennesimo ricommissariamento della gestione di Acciarie d’Italia. Anche questa volta, la misura è tesa a garantire il pagamento di forniture e debiti commerciali: grazie alle follie della politica l’impresa non è bancabile e deve pagare tutto con il proprio circolante. Ancora una volta, dopo un dodicennio, manca la risposta su cosa l’ex Ilva debba fare oppure no, se acciaio a ciclo integrale oppure dismetterlo. La politica annuncia una nuova “gara il più presto possibile” per affidarla ad acciaieri di mestiere. Ma che gara può esserci, se lo stato non sa  cosa chiedere ai partecipanti?

    
Tuttavia il populismo non fa disastri solo a casa nostra. È emblematica la piega che ha preso negli Stati Uniti il caso di Us Steel, società che nel 2022 ha prodotto 14,5 milioni di tonnellate di acciaio grezzo. Poco prima di Natale, il gruppo ha accolto l’offerta di acquisizione venuta da Nippon Steel, gruppo giapponese e quarto al mondo con 44,3 milioni di tonnellate prodotte nel 2022. I giapponesi offrono 15 miliardi di dollari, ma soprattutto si sono impegnati a confermare impianti e occupati negli Stati Uniti, e l’headquarter gestionale e strategico a Pittsburgh. Puntano ad accrescere la produzione di Us Steel fino a 20 milioni di tonnellate annue, e a divenire così il fornitore di elezione per laminati e carrozzerie necessarie a tutta l’industria automobilistica americana. Da allora, però, si è sollevato un coro di scomuniche politiche.

   
Trump si è precipitato a bollare come vergognoso che manager americani abbiano accettato la proposta giapponese, e se fosse presidente lui la vieterebbe subito. Ovviamente, diversi parlamentari repubblicani hanno chiesto il veto di stato. Ma anche numerosi democratici, praticamente tutti gli eletti al Congresso della Pennsylvania, dove Us Steel è basata, esattamente come i repubblicani ostili al deal sono eletti in Missouri e Florida dove Us Steel ha stabilimenti. Viste le pressioni, alla fine Biden stesso, che ovviamente deve difendere Michigan e Pennsylvania in vista delle presidenziali, ha annunciato “un severo dettagliato scrutinio” della proposta giapponese. La United Steelwork Union, sindacato dei siderurgici fedele a Biden, non si fida affatto delle garanzie giapponesi, e in ogni caso nessuno li ha informati, ergo la cessione è fuori discussione

     
La patata bollente ricade ora nelle mani della segretaria al Tesoro ed ex presidente della Fed, Janet Yellen, perché è lei a presiedere il Cfius, l’organo che esamina gli investimenti esteri negli Usa sotto il profilo delle garanzie di sicurezza nazionale ed economica. Nessuno immaginava, però, che di fronte a una vicenda diventata politico-elettorale tutte le maggiori multinazionali che operano negli Usa decidessero di prendere carta e penna per scrivere a Yellen. Nancy McLernon, presidente della Global Business Alliance che rappresenta oltre 200 multinazionali estere attive negli States, ha scritto che nessuno può aspettarsi che il Cfius diventi “uno strumento che decide secondo criteri di favore politico, e consenta o vieti iniziative d’impresa al solo fine di impedire, falsare e corrompere la libera concorrenza. Tali criteri avrebbero effetti gravi sulla propensione a investire negli Usa, effetti totalmente opposti rispetto a quelli dichiarati con le iniziative dell’attuale Amministrazione”. 

   
A Tokyo, Nippon Steel ha seraficamente detto che il dissenso per ragioni politiche era da mettere in conto in anno di elezioni presidenziali, ma si augura che Washington sappia valutare l’importanza di produrre più acciaio negli Usa per la manifattura americana. Mentre Biden chiede al governo giapponese ancora maggiori impegni nel bilancio della difesa contro la Cina, opporre proprio a Tokyo un veto siderurgico sarebbe un controsenso. Vedremo come va a finire. Certo è che il populismo è sempre l’arma di chi vuole distruggere il mercato.

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