le parole dell'influencer

Chiara e ingannevole

Luciano Capone

“Ho chiesto io a Balocco di mettere la donazione nel contratto". Nell’intervista al Corriere, la versione di Ferragni sul Pandorogate è formalmente vera ma completamente fuorviante. Gli atti dell'Antitrust raccontano un'altra storia

Nelle parole di Chiara Ferragni al Corriere della sera, in quella che è stata l’intervista più letta dell’anno con milioni di visualizzazioni, ci sono molti elementi personali sulla crisi matrimoniale con Fedez e sulla “gogna mediatica”, così la chiama, subita dopo la condanna dell’Antitrust per la pratica commerciale scorretta di aver lasciato credere ai consumatori, contrariamente al vero, che l’acquisto del pandoro Balocco griffato Ferragni avrebbe contribuito a una donazione all’ospedale pediatrico Regina Margherita di Torino.

 

L’influencer ha parlato delle sue fragilità, degli errori commessi in buona fede, delle lezioni imparate (“mai più mischiare pubblicità e beneficenza”), delle critiche eccessive, della criminalizzazione della sua figura e di una sanzione (quasi 1,1 milioni di euro) ritenuta “ingiusta e sproporzionata” contro cui ha fatto ricorso. Naturalmente si tratta di un punto di vista soggettivo, su cui ognuno può liberamente farsi la propria opinione. Ma un’opinione per essere pienamente libera deve essere anche consapevole, e quindi informata. E pertanto è doveroso fare qualche precisazione.

 

Nell’intervista, in cui alterna momenti di intimismo a risposte burocratiche che sembrano dettate da un team di avvocati, Ferragni parla della genesi dell’accordo con Balocco affermando che, dopo le donazioni fatte durante il Covid come Ferragnez e amplificate da un crowdfunding milionario (“il più sostanzioso d’Europa”), la sua nuova politica industriale è stata che “nell’ambito di operazioni commerciali tra le mie società e un partner, fosse semplicemente una buona idea provare ad aggiungere una parte di beneficenza anche piccola rispetto al contratto”. A questo punto, alla replica dei giornalisti del Corriere che in quel caso la beneficenza all’ospedale pediatrico l’aveva fatta Balocco e non l’influencer, la Ferragni ribatte decisa: “Vero, così come è vero che è stata una iniziativa mia e del mio team far inserire la donazione all’interno del contratto”.

 

La risposta, formalmente corretta proprio come suggerirebbe un ottimo studio legale, è però sostanzialmente fuorviante. Perché da quelle parole un lettore è portato a credere che l’idea di affiancare a una tradizionale operazione di marketing una donazione benefica sia stata imposta, o comunque suggerita, dal team di Ferragni a Balocco. In realtà, gli atti dicono che è accaduto l’esatto contrario. Dalle risultanze del procedimento dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Agcm), sia nelle memorie difensive delle parti (Balocco e Ferragni) sia nella ricostruzione dell’Authority, emerge chiaramente che "l’iniziativa benefica nasce all’interno della società Balocco – così scrive l’Antitrust – che l’ha condivisa con la signora Chiara Ferragni e che insieme le parti hanno deciso di associare l’attività benefica alla iniziativa del pandoro griffato Ferragni”.

 

È Balocco, nel maggio 2021, a proporre un’operazione commerciale a Ferragni per raggiungere un pubblico più giovane, a cui affiancare un progetto benefico a favore di un ospedale pediatrico. Perché allora Ferragni afferma che è stata lei a “far inserire la donazione all’interno del contratto”? Dalle mail, scambiate prima della firma avvenuta a novembre 2021, emerge una richiesta esplicita di Fenice – la società di Ferragni – di inserire la donazione nell’accordo: in una mail Balocco dice che non aveva “compreso che il dettaglio della donazione sarebbe stato oggetto del contratto”. L’idea è quindi di Balocco, quella di Ferragni è di metterla nel contratto. Non tanto per il timore che l’azienda dolciaria non avesse adempiuto all’impegno, ma per definire i ruoli nella comunicazione.

 

Secondo l’art. 6.6 del contratto, Balocco si impegna ad astenersi “dal comunicare all’esterno la notizia relativa a tale donazione […] se non espressamente autorizzata da Fenice e fermo in ogni caso restando il diritto di quest’ultima di ampia approvazione preventiva sul contenuto di tale comunicazione e sui canali e modalità di diffusione della stessa”. E secondo l’art. 6.2, Balocco non solo ha l’obbligo di “ottenere la preventiva approvazione di Fenice per ogni elemento relativo alla promozione e comunicazione dei prodotti”, ma in caso di disaccordo sui contenuti “la decisione di Fenice dovrà considerarsi come vincolante e prevalente”. In pratica, come sintetizza l’Antitrust, “in forza delle previsioni del contratto” Ferragni ha potuto decidere “la linea editoriale e di comunicazione”. Era questo lo scopo della richiesta dell’inserimento nel contratto: avere il monopolio, o comunque una posizione sovraordinata, rispetto alla comunicazione dell’iniziativa benefica.

 

E proprio l’accettazione di una clausola così vincolante si rivelerà disastrosa per Balocco. Perché dagli atti emerge che il produttore dei pandori non solo non voleva enfatizzare la donazione, ma era consapevole dei rischi di una comunicazione troppo disinvolta. Balocco, ad esempio, non avrebbe voluto inserire nel comunicato stampa il riferimento alla donazione come legata alle vendite. “Mi verrebbe da rispondere [al team Ferragni]: in realtà le vendite servono per pagare il vostro cachet esorbitante”, c’è scritto in una mail interna. “Massima attenzione all’attività benefica che ci espone a pubblicità ingannevole se correlata alle vendite”, c’è scritto in un’altra mail al team Ferragni. Ma la cautela dell’azienda non serve a molto, perché è l’influencer – che di suo non mette un euro, anzi ne intasca tra 1 e 1,5 milioni  – ad avere l’ultima parola e a decidere di calcare la mano sulla comunicazione, in maniera ingannevole secondo l’Antitrust.

 

La richiesta di inserire la donazione nel contratto serviva a Ferragni per avere un controllo pressoché assoluto sulla sua pubblicizzazione. Fare invece intendere che la donazione sia stata una sua idea o che l’insistenza sul vincolo contrattuale avesse uno scopo benefico è ingannevole, un po’ come lasciare intendere che l’acquisto del pandoro contribuisse direttamente ad aiutare i bambini malati di tumore. In un altro punto dell’intervista, Ferragni dice che senza la donazione effettuata da Balocco “probabilmente” lei avrebbe guadagnato “un pochino” di più: il suo, insomma, sarebbe stato un gesto di presumibile generosità indiretta pari a meno del 5 per cento del suo cachet (50 mila euro su oltre 1 milione).

 

È una tesi leggermente diversa rispetto alla sua linea difensiva usata con l’Antitrust, secondo cui il suo sostegno all’operazione benefica non è stato un ipotetico minore incasso, ma “si è concretizzato in una visibilità gratuita per l’Ospedale”. Insomma, la donazione di Ferragni è stata non farsi pagare dall'ospedale pediatrico torinese per la pubblicità su Instagram.

Di più su questi argomenti:
  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali