lacrime e sacrifici

Fitto e il Mef chiedono tagli ai ministeri per finanziare i progetti rimasti fuori dal Pnrr

Giorgio Santilli

L'ultimo decreto legge sul Pnrr prevede tagli per due miliardi e 20 milioni di euro ai fondi per gli investimenti dei ministeri. Fra i dicasteri più colpiti le Infrastrutture, quello dell’Università e quello delle Imprese

Ora sono i tagli per due miliardi e 20 milioni di euro ai fondi per gli investimenti dei ministeri a scatenare l’ennesima tempesta nel governo sul decreto legge Pnrr 4. L’elenco dei tagli è stato distribuito dal Mef ai ministeri interessati soltanto nella serata di lunedì, dopo la fine del Consiglio dei ministri e la conferenza stampa con cui il ministro Fitto cantava vittoria per aver rispettato gli impegni e compiuto un altro riordino. La distribuzione della lista dei tagli ha subito scatenato nel governo un’ulteriore tensione che era già montata con i tagli e le rimodulazioni del Piano nazionale complementare (Pnc). Fra i ministeri più colpiti soprattutto le Infrastrutture, che aveva già pagato un prezzo per le rimodulazioni del Pnc, e ancora il ministero dell’Università e quello delle Imprese. Solo l’elenco definitivo – che ancora non c’è, come non c’è un testo definitivo del decreto legge – potrà dire esattamente quali siano i pesi di questa penalizzazione e se saranno coinvolti altri dicasteri.

 

A essere penalizzati – per rifinanziare i progetti dei comuni esclusi dal Pnrr – sono fondi “centrali” destinati ai trasporti e alla viabilità, alla mobilità sostenibile e alla sicurezza stradale, alle infrastrutture idriche, alla ricerca, alla difesa del suolo, al dissesto idrogeologico e al risanamento ambientale e bonifiche, all’edilizia pubblica, compresa quella scolastica e sanitaria, alle attività industriali ad alta tecnologia, alla digitalizzazione delle Pa, alla prevenzione del rischio sismico, agli investimenti in riqualificazione urbana e alla sicurezza delle periferie. Sono i cosiddetti “fondoni” che consentono programmi pluriennali (generalmente spalmati su 15 anni) e risalgono al periodo 2016-2019, in particolare ai governi Renzi e Gentiloni, che li avevano istituiti soprattutto per fare fronte alle esigenze infrastrutturali di lungo periodo.

 

Erano stati una svolta nella pianificazione delle infrastrutture, poi seguita  dai governi successivi. Anche quello attuale ha stanziato circa 15 miliardi ripartiti in quindici anni. Bisognerà capire ora quanto sia stato accurato il taglio effettuato dal Mef e quanto, invece, sia andato a incidere su programmi e progetti già in corso: il rischio è evidentemente di replicare lo stesso meccanismo perverso introdotto con la revisione del Pnrr, con il taglio di progetti comunali già appaltati e in alcuni casi già cantierati. Una girandola di tagli e rimodulazioni, rifinanziamenti che alla fine lascerà qualche progetto steso a terra senza più risorse. Il “gioco delle tre carte”, lo hanno battezzato i sindacati. Un gioco di dimensioni enormi, circa 15 miliardi che hanno cambiato posto.

 

Il Mef ha distribuito lunedì sera anche il secondo allegato al decreto legge, quello che ripartisce, invece, i benefici di questa manovra complessa, vale a dire 2,7 miliardi recuperati per i piani urbani integrati, dopo l’esclusione dal Pnrr. Non cambia praticamente nulla, nella sostanza della ripartizione delle risorse, rispetto alla situazione precedente al Pnrr, almeno nei totali. L’investimento più grande resta assegnato al comune metropolitano di Napoli con 351 milioni, mentre a Roma ne andranno 330, a Milano 277, a Torino 233, a Palermo 196, a Catania 185, a Bari 181, a Firenze e Bologna 157, a Messina 132, a Genova 141, a Venezia 139, a Reggio Calabria 118 e 101 a Cagliari. Certamente questi continui spostamenti di fonti finanziarie non  aiuta la celerità e la regolarità degli interventi. Il vantaggio per i comuni è che, tornando alla precedente situazione, non avranno più il vincolo del 2026 anche se l’intenzione del Mef è spingere tutti i progetti comunali, che – non è un elemento casuale – dovranno comunque rendicontare attraverso la piattaforma Regis. Una riserva che può tornare utile qualora si bloccassero i progetti rimasti nel Pnrr.

 

L’altro aspetto che rischia di infuocarsi, in questo maxispostamento di risorse, è quello del Fondo sviluppo coesione, che perde fra i 5 e i 6 miliardi, almeno stando all’attuale stato di cose. Questa è anche la cifra fatta in conferenza stampa da Fitto, che si è preoccupato di precisare che il taglio è “temporaneo” e soprattutto che riguarda la componente nazionale del Fondo e non quella regionale. La componente regionale, che tarda a essere assegnata alle regioni del Sud, con l’eccezione della Calabria che ha già incassato, è quella che sta alimentando ormai da settimane la polemica del governatore campano De Luca contro il ministro. L’obiezione che è già in arrivo è – nella polemica sui fondi al Sud – è che anche la componente nazionale del Fondo sviluppo coesione, che viene assegnata ai ministeri, ha un vincolo di destinazione dell’80 per cento al Mezzogiorno.

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